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Sebastião Salgado: la fotografia come atto di resistenza

Francesca Testa di Francesca Testa
3 Giugno 2025
in Camera Chiara, Lapis
Tempo di lettura: 4 minuti
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Sebastião Salgado, nato ad Aimorés, Brasile, l’8 febbraio del 1944, è stato un fotoreporter che ha fatto della documentazione sociale una forma di poesia visiva e della bellezza un atto politico. Figlio unico di un allevatore di bovini, studiò economia all’Università di San Paolo, conseguendo un master nel 1968. Nello stesso periodo lavorò come economista per il Ministero delle Finanze e si unì al movimento popolare contro il governo militare brasiliano. Salgado fu considerato un radicale politico e per questo fu esiliato nel 1969. Fuggì così in Francia dove proseguì i suoi studi presso l’Università di Parigi. Nel 1971 ricevette un incarico presso l’International Coffee Organization di Londra che lo costrinse a frequenti viaggi in Africa, occasione nella quale scattò le sue prime immagini. Da quel momento, con il desiderio di documentare queste esperienze, la fotografia divenne il fulcro della sua vita.

A 27 anni, prese in prestito una macchina fotografica da sua moglie, Lélia Wanick Salgado, che studiava architettura: «Ricordo ancora oggi l’odore di questa macchina fotografica: una Pentax Spotmatic II», racconterà il fotografo. «Quando ho guardato per la prima volta nel mirino, ho capito esattamente che la mia vita era cambiata».

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Salgado inizia la sua carriera da professionista nel 1973 a Parigi, collabora con le agenzie fotografiche Sygma, nel 1974, e Gamma dal 1975 al 1979, poi entra a far parte della Magnum, la cooperativa fotografica internazionale fondata da Henri Cartier-Bresson, Robert Capa, George Rodger e David Seymour nel 1947. Insieme alla moglie, fonda poi la propria agenzia, la Amazonas Images.

Nel suo lavoro di documentazione utilizza fotocamere Leica da 35 mm con pellicola in bianco e nero, ma con il tempo adotta anche fotocamere di medio formato, quali la Pentax 645, così da ottenere negativi di maggiori dimensioni ideali per le stampe di grande formato. Per il progetto Genesis “abbandona” la pellicola per una fotocamera digitale, la Canon 1Ds Mark III, che gli permette di ridurre in modo significativo il peso dell’attrezzatura.

Il fotografo brasiliano privilegia sempre l’uso di obiettivi fissi di alta qualità evitando l’utilizzo di filtri, in modo tale da preservare la purezza dell’immagine. Inoltre, presta molta attenzione alla stampa finale sulla quale interviene manualmente per bilanciare ombre e contrasti, ottenendo così immagini di grande profondità e intensità.

Nel corso della sua carriera, produce diversi documentari, tra cui: Sahel: L’homme enen détresse (1986), Other Americas (1986), An Uncertain Grace (1990) e Workers (1993). In generale le sue fotografie ritraggono persone che vivono in condizioni economiche disperate. Salgado presenta le sue immagini in serie piuttosto che singolarmente e, poiché il punto di vista di ogni opera si rifiuta di separare il soggetto dal contesto, riesce in un compito molto difficile. I suoi scatti trasmettono, infatti, la dignità e l’integrità dei soggetti senza forzarne l’eroismo o sollecitarne implicitamente la pietà – come succede per molte opere che ritraggono il cosiddetto Terzo Mondo. La sua fotografia riesce a trasmettere una sottile comprensione delle situazioni sociali ed economiche che raramente si riscontra nelle rappresentazioni di temi simili realizzate da altri fotografi.

Negli anni Novanta, Sebastião Salgado registrò gli spostamenti di persone in oltre 35 paesi e le fotografie, realizzate in quel periodo, furono raccolte in Migrations: Humanity in Transition (2000), mentre molte delle sue immagini africane furono raccolte in Africa (2007). Il fotoreporter realizzò poi Genesis (2013) dove raccolse i risultati di un’indagine globale durata otto anni sulla fauna selvatica, il paesaggio e le culture umane non ancora “corrotte dall’assalto della modernità e dell’industrializzazione”. Tra le altre sue pubblicazioni figurano Kuwait: A Desert on Fire (2016), Gold (2019) e Amazônia (2021).

Salgado attraversa più di 120 paesi per documentare il lavoro contadino e industriale, i flussi migratori, le condizioni dei rifugiati, degli ultimi del mondo. Le sue immagini non si sono mai limitate alla cronaca, bensì creano composizioni solenni, in cui l’estetica non tradisce la denuncia, ma anzi, la rafforza. Non a caso, il fotografo ha influenzato intere generazioni di colleghi, mostrando e dimostrando che l’etica può andare di pari passo con l’estetica. Che si può raccontare il mondo senza spettacolarizzarlo. Che la bellezza può essere uno strumento di lotta.

La combinazione di una tecnica rigorosa, di una scelta attenta dell’attrezzatura e una visione umanistica ha reso Sebastião Salgado uno dei fotografi più influenti del nostro tempo. Alla sua morte, avvenuta il 23 maggio 2025 a Parigi, il mondo ha perso una voce, un testimone che non si limita a mostrare, ma interroga, commuove e chiede responsabilità. Attraverso i suoi scatti è facile comprendere che fotografare non significa solo inquadrare, ma scegliere da che parte stare e lui ha sempre scelto di stare dalla parte di chi non ha voce. O, forse, dalla parte di chi ha solo quella.

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