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“Il sesso degli alberi” di Alessio Arena, della bellezza e dell’orrore di sentirsi altro

Mariaconsiglia Flavia Fedele di Mariaconsiglia Flavia Fedele
3 Giugno 2025
in Billy, Interviste
Tempo di lettura: 6 minuti
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Alessio Arena non è uno scrittore. Mi spiego meglio: è molto di più. Alessio è la capacità, rara, di fare della parola la più alta forma di espressione, di lirica e incontro, così personale e autentica da non rischiare mai di confondersi, di perdersi nel frastuono del mondo, di adeguarsi ai tempi perché è così che deve andare la letteratura. O la musica. Arena, infatti, è anche un cantautore, suona, canta, compone versi che raccontano storie di epoche antiche e future, contemporanee e senza tempo, ancestrali nei suoni, autentiche nelle viscere. Viscerale è, poi, Alessio traduttore, un abile maestro dell’indossare le scarpe altrui senza sostituirsi al ritmo dei passi dell’altro. Un narratore di corpi e voci che si fanno alberi, radici, linfa per la fotosintesi dell’anima.

Il suo ultimo romanzo, Il sesso degli alberi (edito Fandango), è un’opera sensuale e visionaria che affonda le mani nella terra del desiderio, dell’identità e del silenzio. Un’opera che viaggia tra Napoli e Barcellona, nel frastuono muto di un terremoto e la voce bianca dei castrati. Oggi vogliamo entrare in questo bosco, camminando piano, ascoltando tutto.

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Alessio, cominciamo da qui, dalla terra, dalle radici nelle quali affonda la storia di Matteo, spagnolo di nascita, napoletano di adozione e origine. Non è la prima volta che senti di dover raccontare la condizione di emigrante, un tema che certamente attinge dal tuo vissuto personale e che, qualunque sia l’epoca di riferimento, ben sintetizza quella che è la natura, spesso la necessità, dell’uomo, che si tratti di una migrazione fisica o dell’anima. Mi viene in mente un verso, Caminante, no hay camino (Viandante, non esiste sentiero), che mi sembra racconti il vissuto dei tuoi personaggi e dello stesso Matteo. Quanto se hace camino al andar (si fa strada nell’andare) il loro (ma anche il tuo) diritto all’autodeterminazione?

«È il vero centro di questa storia, l’incrocio definitivo di diversi sentieri di autodeterminazione, un punto di arrivo che, però, è un labirinto, perché anche quando l’identità dei personaggi di questo libro sembra essere arrivata al suo zenit può compiere parabole inaspettate. Come succede agli alberi, la cui sessualità complessa accompagna questa storia come per darne un’interpretazione, come se si trattasse di una sottotitolazione.

Matteo compie un percorso di autodeterminazione investigando la propria voce, la parte del suo corpo che più spietatamente parla della sua diversità: della bellezza e dell’orrore di sentirsi altro».

A proposito di camino, anche in questo romanzo torna prepotente il ricorso all’oralità come se la storia, per essere viva e senza tempo, avesse bisogno di farsi racconto verbale, di famiglia, di generazione in generazione. Insomma, mentre tutti corriamo, tu ancora ti siedi intorno a un tavolo e ci inviti a fare altrettanto. Mi hai riportato all’infanzia, al Sud, al ritmo lento del viversi quotidiano che mi ha insegnato mia nonna.

«È un aspetto che in pochi colgono dei miei libri, quindi mi fa felice sentirti parlare di oralità riguardo alla storia di Matteo/Elisa. Un romanzo che parla di voci e anche di corpi che parlano, urlano, raccontano storie scomode, non poteva non considerare l’eredità delle narrazioni orali, i cunti di famiglia, la parte più autentica della nostra cultura napoletana. Scrivevo questo romanzo mentre cominciavo a lavorare a una tesi sulla letteratura orale di trasmissione femminile in diversi contesti geografici di lingua spagnola. Del resto, io ripeto sempre una storia che, forse, ancora non ho raccontato per bene: sono diventato scrittore grazie alla mia nonna analfabeta, al poter del suo saper raccontare, che mi ha affascinato per tutta l’infanzia e l’adolescenza».

Parlando di Sud, tornano superstizioni, credenze popolari, numeri con cui appellare il mondo, rituali, apparizioni e Madonne, al plurale, come le nostre identità. Valeria Parrella ha definito la tua opera “realismo magico nostrano”. Tu ne hai parlato come del romanzo “più napoletano” che hai scritto (e io sono d’accordo). Quanta Napoli, ancora, abita le stanze della tua ricerca artistica?

«Ci diranno che siamo pesanti, ma si tratta di una cultura, di un’eredità talmente complessa e complicata, che io sento il dovere di parlarne dalla mia umile prospettiva e dalla mia esperienza di orfano di Napoli, o Napolide, se vogliamo dirla con Erri de Luca.

È un dovere soprattutto adesso che la città attira le attenzioni di visitanti che non colgono né considerano l’occasione di farsi viaggiatori, ma accettano passivamente quello che l’improvvisato apparato turistico di Napoli offre loro».

Mi viene da dire che non c’è Napoli senza corpo. E il corpo, nel tuo romanzo, è un luogo sacro e vulnerabile, un vero e proprio campo di battaglia sia nella costruzione del sé sia, mi permetto di sottolineare, della tua stessa scrittura che, appunto, mi sembra corporale, fisica…

«È proprio per questo che L’apemaya, il personaggio che è destinato a diventare una Mater Miracolosa per Matteo/Elisa, parla di corpo come di una pagina bianca: lo spazio da riempire di appunti al margine, sottolineature, cancellature, strappi. E dove dispiegare il racconto di se stessi».

alessio arena il sesso degli alberiIl corpo, come il nome, è certamente la prima stanza che abitiamo, eppure non sempre, come nel caso di molti personaggi del romanzo (i cosiddetti femminielli che a Napoli non è offesa, ma rappresentazione), c’è corrispondenza tra la nostra identità e questo ammasso di pelle, muscoli e ossa. Quanto è arduo, ancora oggi, affermare il proprio diritto a essere, ancor prima a cercarsi in uno specchio sincero?

«Lo è ancora molto. Non solo per chi deve difendere l’esistenza del proprio corpo in una società fondata su un binarismo escludente e retta da rigidi canoni di normatività, ma anche per quelli che più semplicemente nascono nel posto sbagliato e devono affrontare miseria e guerra».

Cosa significa “nascere più volte” e in che modo la rinascita può diventare un atto di resistenza?

«Significa adattarsi, improvvisare strategie di sopravvivenza. E significa anche osare. Abbiamo secoli di letteratura che ci raccontano sempre la stessa storia, ma declinata in mille forme diverse: tutto comincia quando un personaggio osa dare un passo, si azzarda ad avere speranza, o reagisce di fronte all’imminenza della morte».

Oralità, migrazione, corpo. Infine, un nome: è casa che cerca Matteo? E tu?

«Io il nome l’ho cambiato tante di quelle volte. Quando ancora non scrivevo, mi inventavo di chiamarmi con decine di nomi diversi. Poi, ovviamente, me ne dimenticavo. Anche il cognome ho dovuto cambiare, legalmente. Questa cosa mi fa pensare ad Arenas, che cancellò una lettera del suo cognome sul passaporto, quando lasciò Cuba dal porto di Mariel. Lo fece per paura che, alla fine, non lo lasciassero partire con gli altri dissidenti del regime castrista.

Matteo compie un viaggio verso se stesso. E la sua Itaca ha la metà del nome della persona che ama, l’amica che le ha restituito la vita».

C’è una “voce” del tuo passato – come quella del padre di Matteo – che continua a parlarti nel presente?

«Sempre. È una voce che si è introdotta persino in qualche mio disco. È una voce con una storia affascinante che presto racconterò in un piccolo libro che canta».

Il sesso degli alberi è un titolo che sembra già una poesia. A leggerlo si ha l’impressione di entrare in un sogno umido, pieno di radici, carezze, metamorfosi. E, in effetti, nulla di tutto ciò manca nella narrazione. Ti chiederei qual è il seme più profondo che ha fatto germogliare questa storia ma, in realtà, mi interessa di più quali speri possano restituire vita al lettore.

«Volevo raccontare come si vive quando non si ha nient’altro che la magia della speranza. Come si vive quando si nasce ai margini di tutto, e quello spazio decentrato, periferico, pieno di erbacce, poi, fiorisce. Volevo raccontare come ci si sente a essere erbaccia: una pianta le cui qualità non sono ancora state scoperte».

Ultima domanda. Dopo questo libro, dove stai andando? Hai già sentito il richiamo di nuove radici?

«Ho scritto un piccolo “libro di canzoni” al quale facevo riferimento poc’anzi. E sto cominciando a scrivere di quello che può succedere a uno scrittore quando traduce, imita, si innamora e si ossessiona di un altro scrittore. Tutto quello che ho vissuto, fino a ora, tutta la mia vita è stata una lunghissima traduzione. Vorrei raccontare questo».

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