Se non fosse per l’impegno di associazioni, realtà della società civile e pochi sindacati, nessuno si sarebbe accorto dell’appuntamento per il voto di cinque quesiti referendari previsto per l’8 e il 9 giugno. Ma, nonostante il disinteresse istituzionale, i temi al centro della consultazione sono fondamentali, delle vere battaglie di civiltà: lavoro e cittadinanza. Con quasi cinque milioni di firme complessive, i referendum sul lavoro erano stati presentati dalla CGIL, mentre quello sulla cittadinanza inizialmente da Riccardo Magi di +Europa, che ha coinvolto poi numerose associazioni e alcuni partiti. La Corte Costituzionale ha dichiarato ammissibili i cinque quesiti – tutti abrogativi – escludendo invece l’ammissibilità del referendum sull’autonomia differenziata, che pure era stato molto discusso.
Innanzitutto, per tre dei quesiti si tratta dell’abrogazione di alcune norme del Jobs Act che ha introdotto, a partire dal 2015, il contratto a tutele crescenti. Il primo quesito mira proprio ad abrogare le disposizioni che impediscono il reintegro sul posto di lavoro per coloro il cui licenziamento sia stato dichiarato illegittimo nelle imprese con più di 15 dipendenti: chi è stato ingiustamente licenziato può infatti solo sperare di vedersi riconosciuto un risarcimento che, per quanto congruo, non potrà mai restituirgli l’impiego. Il secondo quesito ha scopo collegato, ossia quello di tutelare in particolare i lavoratori ingiustamente licenziati nelle piccole aziende, per cui la legge n. 604 del 1966, all’articolo 8, prevede un tetto alle indennità del risarcimento (pari al massimo a sei mensilità). La proposta ha la finalità di lasciare la discrezionalità di stabilire l’indennizzo al giudice, che potrà valutare caso per caso.
Il terzo quesito mira invece ad abrogare alcune norme che riguardano i contratti a tempo determinato – in particolare alcuni commi dell’art. 19 del d.lgs 81 del 2015 – al fine di ridurre il ricorso ai tempi determinati, oramai non ancorati a nessuna giustificazione, in nome delle esigenze di flessibilità e massimizzazione dei profitti. A pagarne le conseguenze sono più di due milioni di lavoratori vittime di una condizione precaria di vita che è sempre più legittimata e istituzionalizzata.
I temi centrali del quarto quesito sono invece la salute e la sicurezza sui luoghi di lavoro, sempre più un miraggio mentre contiamo tre morti al giorno e migliaia di infortuni – considerando solo quelli denunciati. L’abrogazione riguarda le disposizioni di cui all’art. 26, comma 4, del decreto legislativo 9 aprile 2008, n. 81, nella parte relativa alla limitazione dell’estensione della responsabilità, in caso di infortuni, all’impresa appaltatrice. Il regime vigente, infatti, non fa che giovare agli interessi dell’imprenditore committente, che tenderà, per massimizzare i profitti, a esternalizzare molte delle attività ricorrendo ad altre imprese, magari prive della necessaria solidità finanziaria e/o strutturale, abbassando così il livello della sicurezza.
A guardare queste norme ci si rende conto di quanto i lavoratori e le lavoratrici abbiano perso la loro centralità, diventando mere pedine da spostare ed eliminare a piacimento dei datori di lavoro, ammantati di un’aura di benefattori che le nostre istituzioni contribuiscono a rafforzare. Le modifiche proposte sono una prima possibilità di dare un segnale, con l’obiettivo di offrire slancio alla forza lavoro, all’uomo che partecipa e deve partecipare alle scelte dell’azienda, non un mero numero da sostituire con il successivo alla prima occasione, senza curarsi della sua salvaguardia e incolumità.
In occasione del 1 maggio, al termine di un Consiglio dei Ministri convocato nel giorno precedente la festa delle lavoratrici e dei lavoratori, il Governo ha annunciato uno stanziamento di 650 milioni di euro – derivanti da un avanzo del bilancio di INAIL – per rafforzare la sicurezza sui luoghi di lavoro. Nessuna misura è stata discussa poiché anche stavolta sono state fatte mere enunciazioni di principio per fare propaganda. Le priorità sulla base delle quali queste risorse verranno spese sono molto importanti, ma ancor di più quella che dovrebbe essere intrapresa è una vera e propria rivoluzione culturale, rimettendo al centro le persone, la loro vita, il loro benessere fisico e psichico, e non i guadagni.
Il quinto quesito referendario ha invece l’obiettivo di restituire almeno in parte la dignità che ogni giorno sottraiamo a più di due milioni di persone che, pur conducendo a tutti gli effetti la loro vita in Italia, non vengono riconosciute come italiane in nome di requisiti anacronistici e inumani, mentre invece la cittadinanza viene riconosciuta a chi magari non ha mai messo piede in Italia ma ha un antenato italiano, o il diritto di voto mantenuto per chi, vivendo da anni altrove, non partecipa in alcun modo alla vita del Paese. Con la vittoria del sì, gli anni di residenza legale necessaria per la richiesta di concessione della cittadinanza italiana passerebbero da 10 a 5 e rimarrebbero invece invariati tutti gli altri requisiti, tra cui l’incensuratezza penale, la conoscenza della lingua italiana, il possesso negli ultimi anni di un consistente reddito (perché no, se sei povero non puoi diventare italiano!).
Questi cinque sì rappresentano una grande battaglia culturale, ma soprattutto un’enorme sfida se consideriamo che per la validità delle consultazioni è necessario che si rechi alle urne almeno la metà degli aventi diritto più uno. I nostri rappresentanti politici non solo hanno puntato sulla mancata comunicazione istituzionale (la rete televisiva pubblica ha ignorato il tema, non pubblicizzando né l’appuntamento elettorale né la possibilità di votare per i fuori sede) ma addirittura alcuni di loro hanno invitato all’astensione poiché sembra molto più desiderabile passare una giornata al mare che non decidere di diritti che riguardano tutti. Questo ci dimostra quanto questi quesiti facciano paura alla classe dirigente, così come la scelta di non svolgere la consultazione durante le elezioni amministrative che il 25 e 26 maggio hanno coinvolto 120 Comuni italiani.
Ogni voto è quindi fondamentale per iniziare a scardinare dal basso le fondamenta capitalistiche e opportunistiche della nostra società, per rimettere al centro le esigenze dei cittadini, per gridare che ciò che conta sono le persone. Riprendiamoci il nostro diritto di partecipare e decidere.