Claudia Camillo, nata e cresciuta a Palermo, ha vissuto per molti anni ad Amsterdam, ora risiede a Reggio Emilia. È una fotografa principalmente d’interni e architettura, lavora come freelance per Armani, Berluti e Bulgari. Ama anche la ritrattistica e ha lavorato per il mondo musicale. È una grande appassionata di arte in ogni sua forma, di moda e viaggi, che condivide anche sul suo profilo Instagram clacam. Il mondo è la sua casa. L’abbiamo intervistata.
Claudia, grazie per aver accettato quest’intervista con entusiasmo. Ripercorrendo la sua esperienza, non posso non partire da una domanda: cos’è per lei la fotografia?
«Posso rispondere con una banalità: tutto. Nel senso che ho sempre voluto fare la fotografa, nonostante la vita e il percorso di studi siano stati rivolti a un’altra cosa perché sono figlia di due genitori all’antica per cui esisteva solo la laurea in giurisprudenza o in ingegneria o in medicina. Pur avendo studiato altro, però, ho sempre voluto fare questo, infatti la mia prima macchina fotografica me la son fatta regalare per la promozione in terza media. Appena ho potuto, mi sono dedicata solo alla fotografia. È la mia vita, il mio principale interesse, tutto quello che mi muove. Dico sempre scherzando che non saprei fare altro ma probabilmente non scherzo, è la verità. È fonte di ispirazione, di benessere, di dannazione, anche perché negli ultimi anni è sempre più difficile lavorare in questo settore. La fotografia è la mia dannazione oltre che il mio grande amore. Tutti oggi con i mezzi giusti possono scattare una foto decente. Ma l’occhio fotografico è un’altra cosa. La fotografia parte dagli occhi e da quello che tu vedi prima di scattare. Essere professionisti in questi tempi richiede molta pazienza: è una ruota, dopo aver sperimentato altro, si torna dagli esperti».
I suoi scatti spesso contengono innumerevoli racconti. Sottotraccia c’è sempre la sua narrazione che a me pare avere come costanti respiro, rispetto, evoluzione. Cosa rappresentano, se rappresentano qualcosa per lei, queste tre componenti?
«Quello che si vede è frutto della mia evoluzione: mi accorgo che studio sempre, non solo i nuovi materiali che possono servirmi per il mio lavoro. Capisco, insomma, che mentre fotografo ci sono delle scoperte nuove nel mio modo di scattare. L’evoluzione riguarda sicuramente la mia crescita personale come fotografa, il rispetto è perché sono fan – e lo dico sempre – di una tv verità, per me la fotografia deve essere quella, punto e basta. Non amo photoshoppare, cambiare la verità di quello che è. Non sono per lo stravolgere i connotatati delle persone. Ho rifiutato, e lo dico a malincuore, tantissimi lavori perché dall’altra parte mi si chiedeva un tipo di impegno che si scontrava con il mio modo di lavorare. La verità che vedi è la verità di quello che fotografo, sempre. Mi piace che sia esattamente com’è. Il respiro secondo me è molto collegato al rispetto. Respiro è naturalezza.
La fotografia può essere un grande rilevatore di verità, anche la più brutta, e questo periodo storico ne è l’esempio. Ci sono delle immagini che sono tutt’altro che leggere. Quello che ti arriva è lancinante, è come uno schiaffo, ma lo devi accettare per quello che è, lo devi accogliere in tutta la sua bruttezza perché ti apre la mente, altrimenti non c’è evoluzione».
La sua fotografia non mi sembra pretenziosa ma ambiziosa. Come riesce a conciliare l’ambizione escludendo la presunzione?
«La mia ambizione è quella di fare sempre meglio, di essere sempre più brava per me stessa. Anche quando ho avuto riconoscimenti e mi sono stati fatti complimenti, non mi sono mai sentita arrivata e ancora non mi sento tale. Volo sempre molto basso, è un grande pregio e un grande difetto. Mi rifiuto di tenere corsi di fotografia, il mio consiglio per chi vuole intraprendere questa strada è sempre quello di acquistare un manuale qualsiasi a basso costo, uscire con la macchina fotografica e scattare. La fotografia la impari facendola. Tutti i giorni, scontrandoti con ciò che trovi brutto, poi con l’ambizione si migliora. Non avere la pretesa di essere qualcuno perché ci sarà sempre un altro più bravo di te. E menomale, altrimenti non si cresce».
In un’intervista ha sottolineato la sua passione per lo studio delle forme. Quanto e perché sono importanti nel suo lavoro?
«La mia unica e più grande passione è l’architettura. Ho capito subito che il mio modo di fotografare mi portava in questa direzione. Ho comprato innumerevoli libri di Gardin, Ghirri, Basilico, Berenice Abbott. Se potessi, farei solo architettura e per anni l’ho fatto. Mi colpisce sempre l’utilizzo della luce. È la luce che crea le forme in realtà. È la luce che le aiuta a venir fuori».
Come comprende qual è l’attimo esatto per scattare? Cosa prova?
«Lo sento. Me ne sono accorta anche nella mia ultima vacanza in Norvegia. È una cosa che senti da dentro. Per quasi un anno e mezzo della mia vita non ho scattato, non mi sentivo ispirata. Se non lo sei non c’è niente da fare. Ma quando lo senti, quando arriva quel momento, devi scattare senza pensarci un attimo».
Sa sempre cosa vuole comunicare con uno scatto o capita sia un punto di domanda anche per lei?
«So quasi sempre cosa voglio comunicare e quando non lo so è perché non sono libera. Se sento che sono costretta o mi si indirizza verso una cosa, mi blocco, ed è il motivo per cui rifiuto tanti lavori. Quando scelgo di lavorare con un cliente chiedo sempre di essere molto indipendente e fortunatamente è così il più delle volte. Se mi lasci libera, faccio grandi cose. Devo sentirmi libera».
Roland Barthes ha scritto che la fotografia è violenta: non perché mostra delle violenze, ma perché ogni volta riempie di forza la vista e perché in essa niente può sottrarsi e neppure trasformarsi. Lei la trova violenta? Come si difende, se si difende, dalla violenza della fotografia e come la abita?
«Mi lascio totalmente investire da quello che vedo. Se un’immagine è violenta, mi lascio attraversare da questa cosa così com’è, che è il modo giusto secondo me di lasciarsi investire dalla fotografia. Mi lascio attraversare positivamente anche quando le immagini non sono positive. Le foto violente le devi guardare per quelle che sono per accoglierle. Palermo, la mia amatissima città natale, è un tale scempio di roba che non funziona, di munnizza, di traffico, di sporcizia in strada, però in mezzo a tutte queste cose che non accetti, magari c’è la bellezza di una piccolissima bottega con un artigiano che lavora o una signora che stende i panni. Di fronte a una cosa orrenda, ti sorprende una cosa bella. La fotografia è sempre un bilanciamento tra quello che è nella sua assoluta verità e la sua violenza».
Cosa deve essere e cosa non deve essere un fotografo?
«Deve essere intellettualmente onesto. Non deve vendere la fuffa. L’onestà e la verità su tutto, sempre».
Che ruolo ha per lei il mare, molto presente nella sua fotografia?
«Ha un ruolo enorme. Io sono sempre attratta dal mare: il mare in tempesta, il mare che ti parla, che ti ferma perché è lui che comanda. Sono affascinata dalla sua potenza. Niente ti calma come il mare. Sono appassionata del mare d’inverno pur essendo una velista. Per me è grandissima fonte d’ispirazione, ma più del mare l’acqua è il mio grande elemento. Dove c’è acqua, c’è sicuramente ispirazione fotografica per me. Che sia una pozzanghera, che sia un fiume, un lago o il mare».
Ricorda il primo scatto in cui si è riconosciuta?
«Forse quando ho ricevuto il primo incarico da una grossa casa di moda. Lì ho capito che quello che vedevo era stato compreso. È stato un grandissimo riconoscimento. L’inizio della mia carriera. Ultimamente, forse il progetto più bello l’ho realizzato durante la pandemia, in Olanda, chiusa in casa, ritraendomi con un cellulare e uno specchietto da bagno in tutta la fragilità che stavo vivendo in quel momento. Ero sola, non potevo tornare in Italia, non c’erano aerei e non sapevo quando ci sarebbero stati. È stato devastante. Quel progetto fotografico è il mio più grande riconoscimento. Quando mi ha scritto il giornale Marie Claire per pubblicarlo è stato bello. Soprattutto che lo avessero notato. Quelle foto sono io, in tutta me stessa».
Cogliere la bellezza secondo lei richiede più allenamento o stupore?
«Più stupore. Ci si allena anche al bello, piano piano. Ma devi avere mente, occhi e cuori aperti, altrimenti non vedi niente. Non solo nella fotografia, in tutte le cose. Bisogna lasciarsi attraversare dallo stupore. A volte, anche se la macchina fotografica è diventata estensione del mio occhio e della mia mano, ancora mi esalto e mi stupisco quando scatto, come se fosse la prima volta».
Mimmo Jodice, che ha dichiarato essere per lei un maestro, ha detto che il suo ultimo scatto sarà il suo ultimo sguardo. Se dovesse pensare al suo ultimo scatto quale vorrebbe che fosse?
«Questa è una risposta molto romantica. Vorrei che il mio ultimo scatto fosse ad Amsterdam perché è il mio posto nel mondo. Soffro molto a non essere lì. Nei momenti di sconforto penso a quella città. L’ho lasciata per amore e non me ne pento, ma se devo pensare al mio ultimo sguardo sul mondo, il mio ultimo respiro, vorrei che fosse lì, ad Amsterdam, la mia casa».