Lee Miller, nata a Poughkeepsie, New York, il 23 aprile 1907, è stata una fotografa, artista surrealista e modella americana. Il suo avvicinarsi al mondo della fotografia avvenne grazie al padre Theodore, un fotografo amatoriale che scattava con una Kodak Brownie e che in casa aveva una camera oscura dove insegnò alla figlia le basi del mestiere.
Inizialmente Miller ebbe difficoltà nel trovare una giusta direzione nei suoi studi. Studiò, infatti, illuminazione e scenografia per il teatro presso l’École Medgyés pour la Technique du Théâtre a Parigi per sette mesi; poi si unì all’Experimental Theatre al Vassar College, prese lezioni di danza e si esibì a New York City. Nel 1926, all’età di 19 anni, lasciò definitivamente casa, iniziò a fare la modella e si iscrisse all’Art Students League a Manhattan, dove studiò disegno dal vero e pittura. Quell’inverno incontrò il magnate dell’editoria Condé Nast che, colpito dalla sua bellezza, la scelse come modella per Vogue. Lee Miller, nel marzo del 1927, fu sulla copertina della nota rivista sia nell’edizione americana che in quella britannica. Diversi furono i fotografi di moda che la immortalarono, tra cui Arnold Genthe, Nickolas Muray e Edward Steichen.
La giovane artista, però, decise che avrebbe preferito scattare una foto piuttosto che esserne una e nel 1929 si trasferì a Parigi dove andò a lavorare con il famoso artista e fotografo surrealista Man Ray. Trascorsero tre anni durante i quali la Miller divenne studentessa, collaboratrice, musa e amante di Man Ray. Questi le insegnò la fotografia e insieme svilupparono e lavorarono sulla “solarizzazione”, una tecnica che invertiva le parti negative e positive di una foto e produceva dei contorni simili ad aloni che andavano così a esaltare luci e ombre. Per Lee Miller però Parigi non rappresentava soltanto Man Ray: infatti, in quegli anni incontrò molti artisti, tra cui Paul Éluard, Pablo Picasso, Max Ernst e Joan Miró e li fotografò tutti.
Dopo aver chiuso la relazione con Man Ray, la Miller decise di tornare a New York, era il 1932, e qui aprì uno studio fotografico con suo fratello Erik. In questo periodo scattò ritratti di celebrità, portò avanti la fotografia surrealista, continuò a fare la modella e, allo stesso tempo, anche a scattare foto per Vogue.
Nel 1934 sposò Aziz Eloui Bey, un magnate egiziano delle ferrovie, trasferendosi a Il Cairo. In questo periodo la Miller scattò per se stessa, sentendosi libera, forse per la prima volta, dai vincoli di sfruttare la fotografia per guadagnarsi da vivere. Durante una visita a Parigi, nel 1937, incontrò Roland Penrose, l’artista surrealista che sarebbe diventato il suo secondo marito. Viaggiarono insieme, visitando artisti famosi in tutta Europa e trascorsero del tempo anche con Picasso che realizzò Ritratto di Lee Miller o L’Arlésienne (1937).
Nel 1939 Lee Miller lasciò definitivamente l’Egitto passando per Londra, poco prima dello scoppio della Seconda guerra mondiale e infine riuscì a tornare in America dove accettò un lavoro come fotografa freelance per Vogue. Nel 1943 divenne una corrispondente di guerra accreditata e l’anno seguente si unì al fotoreporter di Life, David E. Scherman. Insieme seguirono l’83sima divisione di fanteria dell’esercito americano mentre avanzava in prima linea. Miller fu una delle poche fotografe a vedere i combattimenti.
Sono tantissimi gli scatti realizzati e da questi traspare la sua attenzione per gli elementi surrealisti, dando vita a fotografie inquietanti che accostano immagini di bellezza ordinaria a violenza e distruzione. Fotografò la liberazione di Parigi, la battaglia di Saint-Malo, gli ospedali da campo in Normandia e la liberazione dei campi di concentramento di Dachau e Buchenwald, londinesi che si rifugiavano durante il Blitz, le conseguenze del D-Day. Inviò le foto a Vogue, incerta della loro pubblicazione, insieme al telegramma VI IMPLORO DI CREDERE CHE QUESTO È VERO. Per fortuna, il numero di giugno 1945 di American Vogue pubblicò gli scatti di Miller dai campi di concentramento con il titolo Believe It. Le sue fotografie, alcune delle prime prove fotografiche dell’Olocausto, erano uno sguardo terrificante alle atrocità commesse dai nazisti.
Da Dachau, lei e Scherman andarono all’appartamento privato di Hitler a Monaco. Lì si fece fotografare da Scherman mentre si lavava nella vasca da bagno del Fuhrer, con gli stivali infangati sullo zerbino. Infine, a partire dal 1945, viaggiò attraverso l’Europa orientale per vedere e fotografare le devastanti conseguenze della guerra.
Al termine del conflitto, continuò a contribuire a Vogue, occupandosi di moda e cultura delle celebrità, compresi i ritratti di artisti rinomati come Pablo Picasso e Joan Miró. Dopo la nascita del figlio, Antony Penrose, Lee e Roland si trasferirono a Farleys, una fattoria nella campagna dell’East Sussex, dove Lee si allontanò dalla fotografia professionale. Utilizzò la macchina fotografica per documentare i loro ospiti abituali, tra cui Picasso, Man Ray, Henry Moore, Eileen Agar, Max Ernst, Andre Masson, Jean Dubuffet e Georges Limbour. Continuò a scrivere per le edizioni britanniche di Vogue fino ai primi anni Cinquanta. Il suo ultimo saggio fotografico ironico si intitolava Working Guests e mostrava importanti artisti che svolgevano lavori domestici e fingevano di rendere la loro casa più abitabile a Farley Farm, come si vede in Richard Hamilton, 1951, e Reg and Jo Butler, 1952.
Lee Miller morì di cancro nel 1977. Diversi anni dopo, il figlio Antony scoprì una soffitta piena di materiale inedito, ora conservato presso il Lee Miller Archive alla Farley Farm House. Antony Penrose ha trascorso gli ultimi trentasei anni a catalogare e preservare l’eredità della madre: durante questo periodo, il suo lavoro è stato esposto in venti paesi diversi, tra cui importanti retrospettive al V&A di Londra, al Philadelphia Museum of Art, al Museo De Arte Moderno in Messico e all’Imperial War Museum di Londra. Lo scorso 13 marzo è uscito un film sulla famosa fotografa interpretata da Kate Winslet.
Lo stile di Lee Miller è davvero unico in quanto caratterizzato da un equilibrio tra sperimentazione surrealista, rigore documentaristico e sensibilità estetica raffinata. La fotografa è riuscita, grazie alla sua tecnica, a trasformare il quotidiano in immagini potenti, suggestive. Aveva un grande controllo, sia sulla luce che sulle ombre, con le quali ha saputo creare profondità e drammaticità. Inoltre, l’influenza di Man Ray le ha permesso di giocare con prospettive insolite, realizzando foto davvero visionarie e ambigue.
Anche nell’immortalare immagini crude come quelle della guerra, la Miller è riuscita a mantenere un occhio empatico. Uno degli aspetti più distintivi della sua fotografia è la capacità di sovrapporre estetica e brutalità, e il suo ritratto nella vasca da bagno di Hitler è probabilmente l’esempio più emblematico delle sue capacità di sintetizzare orrore, ironia e simbolismo in un’unica foto.
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