Roberto De Simone, regista, compositore e musicologo napoletano, era famoso e molto amato, dunque su di lui e la sua scomparsa è stato detto quasi tutto. Il geniale cantore della tradizione partenopea ci ha lasciato il 6 aprile 2025 all’età di 91 anni, ma quello su cui vorrei concentrarmi è una delle sue opere più famose, e probabilmente rappresentative di tutto il suo lavoro, che è La gatta Cenerentola.
Scritta e musicata da lui stesso, è un’opera teatrale in tre atti risalente al 1976, ispirata alla fiaba omonima contenuta ne Lo cunto de li cunti di Basile e intrecciata ad altre favole, fiabe, racconti popolari. Completamente in lingua napoletana, ha come protagonista nientemeno che la città di Napoli nelle forme della ragazza Cenerentola, vittima dell’abuso e delle torture di una matrigna malvagia (in questo caso la metafora si riferisce agli occupanti perché il Regno di Napoli è governato da una corte straniera).
La trama segue a grandi linee la favola classica. Qui, una precisazione: di Cenerentola esistono diverse versioni, da Perrault ai fratelli Grimm, e ovviamente, per data, quella di Basile è precedente. La versione di Charles Perrault del 1697, Cendrillon ou la Petite Pantoufle de verre (Cenerentola o la scarpetta di vetro), inserita nella raccolta I racconti di Mamma Oca, depura la versione di Basile da alcuni aspetti crudi (come l’omicidio in apertura della prima matrigna da parte della stessa Cenerentola sotto consiglio della maestra di ricamo) al fine di renderla più adatta a essere raccontata a corte presso il re di Francia. È in questa versione che compaiono alcuni elementi che diventeranno simbolici, ripresi poi dalla Disney: la fata madrina, la carrozza-zucca e la scarpetta di cristallo.
De Simone si attiene bene o male alla versione di Basile, non escludendo la crudeltà e la storicità, seppur liberamente modificate per seguire la sua idea: di fatto, invece della fata madrina abbiamo il munaciello; invece della scarpetta di cristallo abbiamo uno stivaletto d’oro; invece di due sorellastre, Cenerentola ne ha sei; invece della zucca abbiamo una pianta di dattero. L’omicidio della matrigna invece non avviene, Cenerentola ci prova, ma fallisce. Inoltre aggiunge dei personaggi non presenti in Basile come i femminielli e le lavandaie.
Vorrei porre l’accento sulla questione “femminielli”, un elemento che è presente solo nella versione di De Simone. Cito un articolo di Onda Rock che mi è molto piaciuto quando l’ho letto: Quando a Cenerentola viene negato di partecipare al ballo, la sua frustrazione per il mancato incontro con il re – carica di un ovvio sottinteso sessuale – viene rappresentata da una scena di fantasia, interpretata da quattro figure maschili, in abiti da donna, che si siedono una accanto all’altra per cucire e recitare un rosario, che si rivela essere l’elenco degli uomini con cui vorrebbero fare l’amore.
Non è l’unico spazio dato all’omosessualità, che si ripresenta nel finale con un personaggio del tutto scollegato dal resto della storia, il femminella, che dopo aver litigato con le lavandaie riguardo al suo desiderio irrealizzabile di poter indossare la scarpetta, si uccide gettandosi in un pozzo.
In ambo i casi l’utilizzo della componente omosessuale ha una forte valenza simbolica: nel primo non si tratta infatti di personaggi realmente esistenti, ma della personificazione dei sentimenti di Cenerentola; nel secondo invece di un elemento estraneo il cui scopo sembra mettere in luce l’aggressività delle lavandaie, tutte desiderose di poter indossare la scarpetta e incontrare così il re, frutto proibito che si cela dietro essa. Si sentono pertanto delegittimate dall’ambiguità del femminella – che osa condividere la loro stessa speranza pur essendo un uomo – e solo dopo il suo suicidio si pentono di averlo aggredito verbalmente: a quel punto la loro posizione assume una connotazione positiva, spingendole a contrastare la matrigna e a sostenere Cenerentola. Va inoltre segnalato che proprio la matrigna e la sua figlia maggiore sono interpretate da uomini, in un meccanismo di travestimento parziale per cui, pur indossando abiti femminili, mantengono movenze e voce prettamente maschili. Si tratta di una tecnica presente dalla notte dei tempi nel teatro dell’Italia meridionale, che si ritiene abbia avuto origine addirittura dalle commedie atellane, oltre cinque secoli prima della nascita di Cristo, in epoca preromana.
Il femminiello è una figura profondamente napoletana. Probabilmente esistono dei corrispettivi simili altrove, ma De Simone li inserisce appositamente nella sua versione della fiaba per celebrare questa unicità partenopea.
Perché gatta poi? A spiegarlo è Basile nel suo racconto: Cenerentola ha un soprannome – Zezolla, diminutivo di Lucrezia – ed è sempre sporca di cenere, vaga tra le stanze della casa come un’anima in pena, sempre solitaria, sempre silenziosa, randagia come un micio abbandonato.
Fu Benedetto Croce a prendere il racconto di Basile e tradurlo in italiano per la prima volta nel 1925. Una curiosità: a Napoli, la fiaba è associata al culto della Madonna di Piedigrotta, che secondo una tradizione avrebbe smarrito sulla spiaggia di Mergellina una scarpetta poi ritrovata da un pescatore.
Tornando a De Simone: la sua versione teatrale mi fa pensare alla versione animata prodotta da Luciano Stella con la regia di Alessandro Rak. Ho avuto modo di intervistare Luciano Stella un paio di mesi fa e parlavamo esattamente di Gatta Cenerentola (2017) come naturale erede di Basile e De Simone: anche questa versione metaforizza Napoli, ne canta le sue difficoltà, i suoi squali pronti ad azzannarla nel momento di maggior pena, rendendola però molto contemporanea nelle animazioni, come fosse un mondo distopico nemmeno troppo lontano da noi.
De Simone della sua opera – che lui chiamava “favola in musica” – ha detto: «Quando cominciai a pensare alla Gatta Cenerentola pensai spontaneamente a un melodramma: un melodramma nuovo e antico nello stesso tempo come nuove e antiche sono le favole nel momento in cui si raccontano. Un melodramma come favola dove si canta per parlare e si parla per cantare o come favola di un melodramma dove tutti capiscono anche ciò che non si capisce solo a parole. E allora quali parole da rivestire di suoni o suoni da rivestire di parole magari senza parole? Quelle di un modo di parlare diverso da quello usato per vendere carne in scatola e perciò quelle di un mondo diverso dove tutte le lingue sono una e le parole e le frasi sono le esperienze di una storia di paure, di amore e di odio, di violenze fatte e subite allo stesso modo da tutti. Quelle di un altro modo di parlare, non con la grammatica e il vocabolario, ma con gli oggetti del lavoro di tutti i giorni, con i gesti ripetuti dalle stesse persone per mille anni così come nascere, fare l’amore, morire, nel senso di una gioia, di una paura, di una maledizione, di una fatica o di un gioco come il sole e la luna fanno, hanno fatto e faranno» (dalla prefazione della edizione del 1976: La gatta Cenerentola di Roberto de Simone, Einaudi).
Una cosa importante da dire: De Simone, insieme a NCCP (Nuova Compagnia di Canto Popolare), ha contribuito a salvare dall’oblio innumerevoli opere orali, come canzoni, musiche tradizionali, racconti, favole, dunque a prescindere dal suo genio professionale e tecnico, quello che maggiormente vorrei passasse è la sua opera filantropica nei confronti della sua città e delle sue origini.
Speriamo di rivedere La gatta Cenerentola a teatro nel prossimo futuro, così da celebrarlo anche noi nel modo migliore.