Salvador Dalí. La mente di ognuno di voi, in questo momento, sta visualizzando il volto in bianco e nero del pittore ritratto da un fotografo dal nome francese, Philippe Halsman. Prima di volare da Parigi a New York, di incontrare i baffi di Dalí e la schiena di Churchill, prima che il suo nome diventasse quello con cui ancora oggi viene ricordato, l’uomo che ha convinto chiunque a saltare davanti alla sua macchina fotografica ha vissuto altre due vite. Si chiamava Philipp Halsmann: la sua prima vita da figlio, studente, fratello, amico, si è conclusa il giorno in cui ha assistito alla morte del padre, sulle Alpi tirolesi, il 10 settembre 1928.
La teoria del salto (minimum fax) ricostruisce la sua vicenda personale come un tassello che si incastra nella storia europea e occidentale tra gli anni Venti e Trenta: l’Europa di Breton e Freud, della psicanalisi e dell’inconscio; la Parigi del Surrealismo di Magritte e Dalí e del salotto di Gertrude Stein; gli Stati Uniti tra Armstrong e Broadway vedono ruggire proibizionismo e Ku Klux Klan.
Con l’accusa di parricidio, l’esistenza di Philipp sarà stravolta: la cella di un carcere austriaco prenderà il posto della sua casa di Riga, le aule universitarie di Dresda saranno sostituite da quelle di tribunali e le sue frequentazioni coinvolgeranno avvocati, giurati popolari, pubblici ministeri e psicologi. «Quella gente vuole trasformare il mio dolore in un circo». Il caso Halsmann diventa un nuovo affaire Dreyfus: il processo è necessario per placare l’opinione pubblica tirolese che ha fame e voglia di dare la caccia all’assassino ebreo.
La ricostruzione analitica delle vicende processuali nel romanzo-biografia di Corrado De Rosa è plasmata dallo studio sul ruolo che la psicologia e la follia, anche presunta, giocano nell’edificazione di una verità che è tale in quanto socialmente accettabile, necessaria e condivisa. L’immagine e l’anima di Philipp vengono scandagliate con fare chirurgico e date in pasto a chiunque voglia vedere in lui il diavolo in persona: è animalesco, scorbutico, truculento; è colpevole ancor prima che il processo inizi. I tirolesi sono affascinati dal caso Halsmann e il dolore di un figlio viene messo in scena affinché un intero popolo possa far leva su tale vetrinizzazione per affermare la propria identità.
Un’identità che è pregna di un crescente antisemitismo: l’archetipo del nemico straniero e della cospirazione giudaica nelle menti dei tirolesi prende le sembianze di un ragazzo schivo e incapace di mentire tanto quanto di salvarsi. Il caso diventa anche oggetto di una guerra giornalistica e, così come accadde per Dreyfus, in molti si mobilitano a suo favore: Sigmund Freud, Thomas Mann, Albert Einstein.
Le pagine dedicate alle numerose fasi del macchinoso processo volano via in un attimo: la sensazione, tuttavia, è quella di rimanervi invischiati, di sentire addosso tutto il disincanto dell’ingiustizia mentre chi ci sta di fronte sembra nato per sorvolare sulla complessità. Sentiamo emergere, a far da contraltare al bisogno di imporre la ricerca della complessità sul caso Halsmann, l’emozione più umana e più semplice: la rabbia.
Sarà lei a prendervi per mano e accompagnarvi nella terza vita di Halsmann, quella del fotografo da centouno copertine di Life, davanti al quale tutti hanno ceduto alla richiesta, apparentemente assurda, di compiere un gesto tanto istintivo quanto arduo: il salto.
Saltare non permette di mantenere il controllo e mette a nudo. Ma perché Philippe chiede a Marilyn, a Nixon, a Oppenheimer di saltare? Cosa, delle sue vite passate, si insinua nella sua psicologia del salto? Il segreto, lo svelamento, la verità. Philipp(e) Halsman(n) ha vinto la gravità.
Contributo a cura di Serena Corsale