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Applaudire a Netanyahu, applaudire al genocidio

Mariaconsiglia Flavia Fedele di Mariaconsiglia Flavia Fedele
25 Luglio 2024
in L'Anguilla
Tempo di lettura: 6 minuti
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Le bombe. Gli spari. I palazzi che crollano. I cani che urlano. Le madri che cercano i figli. I figli che cercano le madri. I padri che ne raccolgono i pezzi. Il pianto della terra. Il sangue che scorre. La storia che si ripete. Credevo fosse questo il rumore di un genocidio, il rumore di un popolo che soccombe all’odio, di un popolo che non può sopravvivere. E, invece, sono le mani che battono, le une sulle altre, scroscianti, senza esitazione. Sono le gambe che si drizzano, in piedi, seduti, ricominciamo. Sembra una messa e, invece, è il Congresso americano. Le camere riunite. In piedi, seduti, in piedi, seduti. Cinquantotto volte, cinquantotto standing ovation, gli Stati Uniti che si inchinano a Benjamin Netanyahu.

Per la quarta volta, il Primo Ministro israeliano parla dal pulpito della democrazia americana, quello che soltanto quattro anni fa Donald Trump ha usurpato in un tentativo di golpe già derubricato. «Siamo a un crocevia della storia» dice, lo sguardo fiero, la schiena dritta. A Gaza si continua a bombardare. A Gaza si continua a morire. «Questo non è uno scontro di civiltà, è uno scontro tra barbarie e civiltà, uno scontro tra coloro che glorificano la morte e coloro che santificano la vita». Il primo scrosciante applauso accompagna questa gravissima bugia. Più di cento democratici hanno scelto di non presenziare; nessuno, però, lascia l’aula. «America e Israele devono stare insieme – afferma Netanyahu, una standing ovation lo interrompe – perché quando stiamo insieme qualcosa di molto semplice succede: noi vinciamo, loro perdono. Sono venuto ad assicurarvi una cosa: noi vinceremo». E giù con gli applausi.

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Il 7 dicembre 1941, l’11 settembre 2001, il 7 ottobre 2023. Sono i giorni che non dimenticheremo, dice, e non a caso sceglie Pearl Harbour e le Torri Gemelle, il dolore di ogni americano. Lo paragona al dolore delle famiglie delle vittime di Hamas, «un dolore che va al di là delle parole». Elogia il Presidente uscente Biden, Netanyahu, mentre quello passa ufficialmente la torcia dallo Studio Ovale. Elogia la sua vicinanza, la vicinanza di un fiero sionista irlandese americano. Vanne orgoglioso, verrebbe da dire, e lui, loro, sì, lo sono davvero.

Esalta i suoi uomini, i soldati israeliani. Alcuni, insieme ai parenti degli ostaggi, sono presenti in aula, per ognuno le mani non smettono di battere. «Il sacrificio delle vostre famiglie non sarà vano […] Israele non dovrà mai più essere una promessa vuota». Cita i leoni della Bibbia, il Primo Ministro, li paragona alle sue forze di difesa, che hanno ruggito – e morso – più che reagito.

Fuori, tra le strade di Washington, in tanti si sono riuniti per manifestare, le mani di Netanyahu sporche di sangue. La polizia li allontana con lo spray al peperoncino; il Primo Ministro israeliano li chiama utili idioti. Stanno con gli assassini, dice, con il diavolo, non sanno distinguere il bene dal male. «Dovrebbero vergognarsi di loro stessi» dice. I manifestanti. Non lui, non i suoi, non chi continua ad applaudire. «Rifiutano di fare la semplice distinzione tra coloro che prendono di mira i terroristi e coloro che prendono di mira i civili, tra lo Stato democratico di Israele e i terroristi di Hamas». Nemmeno qui l’aula si svuota.

«L’Iran finanzia le proteste per distruggere l’America». Noi, tutti, secondo la logica del Primo Ministro israeliano, siamo pagati per ribellarci a un genocidio. Perché è dinanzi a questo che siamo, no? No, risponderà più tardi, ma non è ancora il momento. Tocca ora ad Abramo, Giacobbe, Isaia, gli uomini delle Scritture ad affermare che la terra di Israele è loro, appunto, per discendenza, per volere divino, secondo una storia che va avanti da secoli e non a botta di colonialismo e sopraffazione. Gioca la carta dell’Olocausto, Netanyahu, dell’antisemitismo che avanza, della persecuzione e del genocidio – stavolta sì –, delle bugie che sarebbero rivolte al popolo ebraico. «Non applaudite», dice, «ascoltate». Tutto questo va condannato, fermato risolutamente. E saremmo d’accordo se non aggiungesse il resto. L’odio va sempre respinto, l’odio va sempre arginato.

«È una totale assurdità, un’invenzione, che Israele sta affamando il popolo di Gaza. Se i palestinesi a Gaza non hanno cibo non è perché Israele lo sta impedendo, ma è perché Hamas lo sta rubando». Come spiega il Primo Ministro israeliano le immagini dei camion fermi al valico di Rafah per settimane? Come spiega gli attacchi ai convogli umanitari? Come spiega le ore di elettricità contate, l’acqua che scarseggia, il gas a intermittenza? Non da oggi, non dal 7 ottobre, ma da sempre, da quando Israele occupa illegalmente i territori palestinesi, avanza e costruisce in Cisgiordania, rade al suolo gli allevamenti e le piantagioni, impone la sua presenza. Lo dice la Corte Internazionale di Giustizia, mica chi scrive. Lo dice la storia.

«Di cosa diavolo sta parlando chi sostiene che Israele sta uccidendo i civili?» si chiede Netanyahu. «L’IdF ha sganciato milioni di volantini, inviato messaggi, fatto telefonate» per avvisare i palestinesi, per farli scappare, meglio, per farsi mettere in trappola. Per abbandonare le case, svuotare le città, perdere la Palestina. «Hamas lo impedisce, lancia razzi dalle scuole, dagli ospedali, dalle mosche, sparano alla loro stessa gente. Per Israele ogni civile ucciso è una tragedia, per Hamas una strategia». Ma solo perché così Israele viene infamato dai media internazionali e subisce pressioni, ma – assicura il Primo Ministro – «indipendentemente dalla pressione esercitata» non permetterà mai che un altro 7 ottobre accada.

«Israele ha implementato più precauzioni per prevenire danni ai civili di qualsiasi azione militare nella storia, anche al di là di quanto richiesto dal diritto internazionale». Lo dice ad alta voce, lo ripete con convinzione, applaude il Congresso, applaudono tutti. Solo poche mani non si incontrano, restano ferme, un paio mantiene un cartello che accusa Netanyahu di crimini di guerra, qualcuno le lascia libere, in segno di protesta. Chissà se a pagarlo è l’Iran.

«La guerra a Gaza ha uno dei rapporti più bassi tra vittime combattenti e non combattenti nella storia della guerra civile. E sapete dov’è più basso? A Rafah.  E hanno detto che se Israele fosse entrato a Gaza sarebbero morte decine di migliaia di civili. Beh, la settimana scorsa sono andato a Rafah e ho visitato le nostre truppe»: praticamente, gli hanno riferito, non è morto nessun civile, lo hanno rassicurato. «Tranne in un piccolo incidente dovuto alle schegge di una bomba». Standing ovation, applausi scroscianti, mettetevi vergogna. «Non dovrebbero essere condannati questi eroi, ma lodati». Lodati per 40mila palestinesi uccisi e 90mila feriti. Chissà quanti dispersi, chissà quanti morti non ancora.

«Stanno cercando di incatenare le mani di Israele, di impedire di difenderci, ma Israele si difenderà sempre» e da «orgogliosa democrazia filoamericana» lo farà anche per gli USA, la prossima democrazia a essere colpita dall’Iran che ne vuole la distruzione. «Quando combattiamo, combattiamo per gli Stati Uniti d’America. […] I vostri nemici sono i nostri nemici, la vostra battaglia è la nostra battaglia, la nostra vittoria sarà la vostra vittoria».

Sanno, dice Netanyahu, che mentre loro combattono su  tutti i fronti, l’America gli copre le spalle. Cita Churchill, dateci gli strumenti più in fretta e più in fretta vinceremo. Per «una nuova Gaza demilitarizzata e de-radicalizzata. Israele non cerca di reinsediare Gaza, ma di mantenere un controllo di sicurezza prioritario per impedire la recrudescenza del terrorismo e impedire a Gaza di farsi minaccia». Una Gaza dove i civili palestinesi «non odino Israele. Abbiamo il diritto di chiedere questo, no?».

Netanyahu ringrazia Trump per gli accordi di Abramo del 2020, quando l’allora Presidente ha riconosciuto Gerusalemme quale capitale della nazione israeliana. Lì il Tycoon ha spostato l’ambasciata americana, ribadendo il diniego USA dell’esistenza della Palestina. Due popoli per due Stati. Eliminiamo un popolo, risolviamo il problema. «Israele sarà sempre un alleato necessario». E questo lo sanno bene gli Stati Uniti, come tutti i Paesi che ai suoi piedi si sono stesi in questi mesi, quasi un anno, di assedio totale a Gaza, l’inferno dei viventi, di quelli costretti a raccogliere cocci e brandelli delle proprie vite, dei propri cari, dei propri sogni. I furgoncini dei gelati come obitori, le strade senza luce, gli ospedali che non sono più.

40mila morti, 90mila feriti. Credevo fosse questo il rumore di un genocidio, il rumore di un popolo che soccombe all’odio, di un popolo che non può sopravvivere. E, invece, sono le mani che battono, le une sulle altre, scroscianti, senza esitazione. Sono le gambe che si drizzano, in piedi, seduti, ricominciamo. Sembra una messa e, invece, è il Congresso americano. Le camere riunite. In piedi, seduti, in piedi, seduti. Cinquantotto volte, cinquantotto standing ovation, gli Stati Uniti che si inchinano a Benjamin Netanyahu. Gli Stati Uniti che applaudono a un genocida.

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