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Settant’anni di Israele: la Palestina che non si cancella

Mariaconsiglia Flavia Fedele di Mariaconsiglia Flavia Fedele
15 Maggio 2018
in Il Fatto
Tempo di lettura: 5 minuti
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Amal, credo che la maggior parte degli americani non ami come amiamo noi. Non è questione di inferiorità o di superiorità. Vivono in sfere sicure e superficiali, e raramente spingono le emozioni umane nella profondità in cui viviamo noi. Vedo che sei confusa. Pensa alla paura. Quella che per noi è semplice paura per altri è terrore, perché ormai siamo anestetizzati dai fucili che abbiamo continuamente puntati contro. E il terrore che abbiamo conosciuto è qualcosa che pochi occidentali proveranno mai. L’occupazione israeliana ci ha esposti fin da piccoli a emozioni estreme, e adesso non possiamo che sentire in maniera estrema. 

Le radici del nostro dolore affondano a tal punto nella perdita che la morte ha finito per vivere con noi, come se fosse un componente della famiglia che saremmo ben contenti di evitare, ma che comunque fa parte della famiglia. La nostra rabbia è un furore che gli occidentali non possono capire. La nostra tristezza può far piangere le pietre. E il nostro modo di amare è diverso, Amal. 

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È un amore che puoi conoscere solo se hai provato la fame atroce che di notte ti rode il corpo. Un amore che puoi conoscere solo dopo che la vita ti ha salvato da una pioggia di bombe o dai proiettili che volevano attraversarti il corpo. È un amore che si tuffa nudo verso l’infinito. Verso il luogo dove vive Dio. 

– Susan Abulhawa, Ogni mattina a Jenin

Probabilmente, non c’è giorno, nella storia della sedicente democrazia a stelle e strisce, che non abbia le mani sporche di sangue. L’ultimo – e qui si rischia di essere smentiti, vista la rapidità con cui nuove stragi vengono siglate – risale a ieri, a quando gli Stati Uniti hanno deciso di spostare la loro ambasciata da Tel Aviv a Gerusalemme in occasione della ricorrenza della nascita dello Stato di Israele che celebra proprio in queste ore i suoi settant’anni di costituzione.

Una scelta, quella americana, che ha suscitato le solite inutili indignazioni delle Nazioni Unite, tramutatesi in un nulla di fatto dell’organizzazione che, ancora una volta, è rimasta a guardare senza muovere un dito. Già lo scorso 6 dicembre, gli USA, capitanati da uno dei peggiori Presidenti di sempre, Donald Trump, avevano dichiarato di riconoscere la Città Santa quale capitale del Paese ebraico, rinnegando l’appartenenza palestinese della zona est, annessa al territorio giudaico nel 1967, in seguito alla Guerra dei Sei Giorni, con una mossa mai riconosciuta dalla comunità internazionale.

Ribadendo la propria posizione e proseguendo su questa strada, dunque, una delegazione presidenziale – costituita da Ivanka Trump e Jared Kushner, figlia e genero del Tycoon, dal Vicesegretario di Stato John Sullivan e dal Segretario al Tesoro Steven Mnuchin – ha inaugurato ieri la nuova ambasciata americana che ha lasciato Tel Aviv per stabilirsi proprio a Gerusalemme, a mo’ di schiaffo nei confronti delle decine di migliaia di palestinesi che dal 30 marzo si muovono per la cosiddetta Grande Marcia del Ritorno, un lungo cammino simbolico di natura pacifica e non militare il cui termine è previsto per oggi, in memoria dell’al-Nakba, la catastrofe, il giorno che vide la nascita ufficiale di Israele e la conseguente espropriazione di tutte quelle che erano le proprietà dei rifugiati da cui i protestanti discendono nel 1948, anno di inizio dell’invasione.

Il loro grido di protesta, però, rivendicazione di quello che è sancito come diritto al ritorno, anche ieri, così come negli ultimi sette decenni, ha trovato ad accoglierlo la mano dei sionisti armata del sostegno della più forte potenza mondiale. Non a caso, nel corso della cerimonia di inaugurazione, Benjamin Netanyahu, il Premier israeliano, ha ringraziato gli Stati Uniti, sottolineando l’importanza della fede mantenuta alle promesse fatte in precedenza e la forte amicizia che unisce i due Paesi. Un legame per nulla sospetto e facilmente comprensibile.

Quello che Donald Trump ha affermato essere un grande giorno per Israele si è rivelato, infatti, l’ennesimo massacro di un popolo a cui è stato tolto tutto nell’indifferenza di un mondo ipocrita e assassino che ha fatto suo il per nulla esemplare sogno americano. Cinquantadue morti – tutti rigorosamente palestinesi – e circa duemilaquattrocento feriti sono soltanto le ultime vittime di una violenza inaudita che da settant’anni vede sempre lo stesso predatore e sempre la stessa preda, in un vero e proprio tentativo di cancellazione di una popolazione coraggiosa per la quale, domani, nessuno istituirà una Giornata della Memoria. Una popolazione che, disperatamente, tenta di non soccombere, stretta nella morsa dei nazisti che subito dopo la guerra hanno cambiato casacca, sicuri del sostegno della Casa Bianca. Per questo, i cinquantadue morti e i duemilaquattrocento feriti sono anche le ultime vittime di quegli USA che sulla sopraffazione, sulle bombe, sull’arroganza hanno costruito, fieri, la loro intera storia e così continueranno a fare, avallati dalle potenze europee, come la nostra, che vivono della luce riflessa a stelle e strisce per poi fermarsi a riflettere il 27 gennaio. I morti di ieri, però, non sono così diversi da quelli commemorati per convenzione. Forse, hanno solo il pigiama a righe sbagliato.

Il bilancio di queste ventiquattro ore di proteste resta provvisorio e, per quanto drammatico, non sorprende più. In fondo, ci si è così abituati a considerare il Medio Oriente come terra di sangue e lacrime ingoiate da non provare nemmeno finta indignazione. Quando si tratta di Gaza, quando si tratta di Palestina, è una guerra che non interessa, una distanza troppo ampia dai fedeli agli Alleati. Se pure spostassero tutte le ambasciate, però, Gerusalemme non potrebbe mai essere realmente israeliana. Non è nella sua natura e nemmeno tra altri settant’anni lo sarà.

Ho sempre trovato difficile non commuovermi alla vista di Gerusalemme, anche quando la odiavo – e Dio sa quanto l’ho odiata, per il suo immenso costo di vite umane. Ma la sua visione, da lontano o da dentro il labirinto delle mura, mi trasmette sempre un senso di dolcezza. Ogni centimetro di questa città racchiude i segreti di civiltà antiche, le cui morti e tradizioni sono impresse nelle sue viscere e nelle macerie che la circondano. I glorificati e i condannati hanno lasciato le loro impronte sulla sabbia. È stata conquistata, distrutta e ricostruita così tante volte che le pietre sembrano possedere una vita donata loro dagli eterni bilanci di preghiere e sangue. Eppure, in qualche modo, Gerusalemme trasmette umiltà. In me suscita un innato senso di familiarità – l’indubbia, irrefutabile sicurezza palestinese di appartenere a questa terra. Mi possiede, indipendentemente da chi la conquista, perché il suo suolo è custode delle mie radici, delle ossa dei miei antenati. Perché conosce i desideri segreti che hanno infiammato i letti delle mie progenitrici. Perché io sono il frutto naturale del suo passato ardente e burrascoso. Sono figlia di questa terra, e Gerusalemme mi rassicura di questo titolo inalienabile molto più degli atti di proprietà ingialliti, dei registri catastali ottomani, delle chiavi di ferro delle nostre case rubate, di tutte le risoluzioni o i decreti che potranno emanare l’ONU o le superpotenze.

– Niente male come posto, vero, tesoro? – disse ‘Ammu Jack.
Sorrisi timidamente e tornai in macchina. 

– Susan Abulhawa, Ogni mattina a Jenin

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