«Da oggi in poi dedicheremo tutta la nostra vita per rendere Gaza ebrea, tutta Gaza»: Daniella Weiss ha 78 anni, più di quanti ne abbia lo Stato di Israele. È una leader dei coloni – sionista, attivista, maestra, si definisce lei – e ai microfoni di Francesca Mannocchi, su Propaganda Live, sintetizza ciò che ormai è sotto gli occhi del mondo: il 7 ottobre è la scusa, il genocidio è la causa e il fine. A chiunque queste parole suoneranno come antisemite, dico di guardare le immagini di questa notte, le ultime di un massacro che non è giustizia fai da te e nemmeno vendetta: è odio, persecuzione, sterminio. Volontà di cancellazione.
Come si spiegano, altrimenti, i bambini decapitati, le persone bruciate vive, le tende in fiamme, l’ennesimo raid aereo su una zona umanitaria nell’estremo sud di Gaza? Siamo nella tendopoli di Tal as-Sultan, vicino Rafah, non lontani dal quartier generale delle Nazioni Unite, siamo in un campo profughi. Uno di quei luoghi che non andrebbero toccati. Ma a Israele non importa. O forse sì: a Israele interessa tutto ciò che è palestinese e si muove e respira e ora non più.
Nell’attacco dell’IdF che – guarda caso – era mirato a colpire due alti esponenti di Hamas, sono morte almeno quaranta persone, più di duecento i feriti, ma è difficile dare numeri precisi in questo momento. Un minimo di otto missili ha colpito la tendopoli, ma gli ospedali della zona – fa sapere la Mezzaluna Rossa Palestinese – non sono in grado di gestire il gran numero di vittime. Anche Medici Senza Frontiere conferma l’attacco e si dice inorridita: «Quello che è successo dimostra ancora una volta che nessun luogo è sicuro a Gaza».
Il massacro è avvenuto a due giorni dall’ordine a Israele, da parte della Corte Internazionale di Giustizia dell’Aja, di sospendere l’operazione militare – o invasione che dir si voglia – nel sud della Striscia, a Rafah per l’appunto, dove Tel Aviv è tenuta a riaprire il valico per consentire l’accesso agli aiuti umanitari finora negati (sempre perché non vuole cancellare il popolo palestinese).
Nelle parole del Presidente Nawaf Salam, la Corte si è detta «non convinta che gli sforzi di evacuazione e le relative misure che Israele afferma di aver intrapreso per rafforzare la sicurezza dei civili nella Striscia di Gaza, e in particolare di quelli recentemente sfollati dal governatorato di Rafah, siano sufficienti ad alleviare l’immenso rischio a cui è esposta la popolazione palestinese». Entro un mese, dunque, Israele dovrà presentare un rapporto sulle misure adottate e, soprattutto, consentire l’ingresso, ancora proibito, degli ispettori in città. Così come lo è ai giornalisti, alle tv, a chiunque provi a raccontare la verità.
In tutta risposta, Benjamin Netanyahu ha dapprima convocato con urgenza i suoi ministri poi, nella stessa serata, ha fatto partire un violento attacco su Rafah, seguito dal massacro di questa notte. Tel Aviv, insomma, ha chiarito che non si fermerà, convinta com’è delle proprie ragioni, della forza incontrastata e dell’obiettivo – ormai prefissato – che porterà a termine senza se e senza ma.
Basti pensare al 7 maggio, quando per la prima volta, dopo settimane di dichiarazioni inutili da parte dei leader internazionali che ne ammonivano le intenzioni, le forze armate di Netanyahu sono entrate nell’ultima città a sud della Striscia, l’avamposto a pochi passi dall’Egitto dove Israele ha spinto i sopravvissuti di questi mesi di assedio per poi bombardarli. Anche lì, dove Palestina era e Palestina deve restare, la stella di David ha iniziato a sventolare: 1,3 milioni di persone non hanno più via di uscita e, con il valico sotto il controllo sionista, non possono nemmeno procurarsi del cibo, dell’acqua, delle medicine. Talvolta piovono dal cielo, ma ben più spesso piovono bombe. A Gaza nessun luogo è sicuro, ciò che resta di un campo di concentramento, l’Auschwitz dei giorni nostri.
È l’inferno dei viventi la Striscia di Gaza, di quelli costretti a raccogliere cocci e brandelli delle proprie vite, dei propri cari, dei propri sogni. I furgoncini dei gelati come obitori, le strade senza luce, gli ospedali che non sono più. Non c’è cibo. Non c’è rifugio. Non c’è via di fuga. Ma nessuno vuole che ce ne siano. Lo ha detto, sin da subito, il Ministro della Cultura israeliano Amichai Eliyahu invocando la bomba atomica; lo ha ribadito Daniella Weiss in un’intervista che sembra finta tanto è raccapricciante; lo ha ripetuto ogni singola azione di Benjamin Netanyahu e del suo esercito senza umana pietà. E lo ha ammesso, a suo modo e con i suoi tempi, la Corte Penale Internazionale dell’Aja. Sul Primo Ministro e sul Ministro della Difesa israeliani pendono le richieste di mandato d’arresto – così come su tre leader di Hamas – perché nessuno è al di sopra del diritto internazionale. O, almeno, così dovrebbe essere. Se solo lo zio Sam si schierasse, per una volta, dalla parte giusta della storia, finalmente isolando Israele, tagliando sostegno e fondi, votando – e non astenendosi o, addirittura, schierandosi contro – le risoluzioni per il cessate il fuoco. Se solo Stati Uniti, Italia, Francia, Germania e Gran Bretagna riconoscessero la Palestina, anziché essere tra gli ormai pochi membri ONU a non farlo.
Dal prossimo 28 maggio, infatti, anche per Spagna, Irlanda e Norvegia la Palestina sarà uno Stato. Per i Paesi coloniali sopracitati, invece, resterà soltanto una fantomatica dichiarazione. L’Italia e i soliti alleati, infatti, si sono ancora una volta astenuti in occasione del voto dello scorso 10 maggio quando la risoluzione presentata dagli Emirati Arabi ha ottenuto 143 voti favorevoli, 9 contrari e, appunto, 25 astenuti. Pur trattandosi di una votazione perlopiù simbolica, poiché la vera adesione deve essere approvata innanzitutto dal Consiglio di Sicurezza, le principali potenze mondiali avrebbero avuto la possibilità di rivedere la propria responsabilità nel genocidio in corso nella Striscia di Gaza, evitando parole di sconforto e indignazione in queste ore di tende e corpi bruciati. E, invece, eccoci punto e daccapo. A cosa servono le loro dichiarazioni? A cosa serve il Ministro Crosetto che, per la prima volta, fa un distinguo tra Hamas e la Palestina, dichiarando che Israele sta seminando odio? Alle Europee, forse. Ma nemmeno tanto.
Il procuratore generale militare israeliano Yifat Tomer Yerushalmi ha affermato che il raid su Rafah è sotto indagine, etichettando l’attacco come grave incidente. Anche un portavoce del Consiglio di Sicurezza Nazionale statunitense ha utilizzato questa parola in un’intervista al Times of Israel. Sempre con incidente, un mese fa, fu liquidato persino l’attacco ai convogli della World Central Kitchen, quando sette operatori umanitari furono deliberatamente uccisi da Israele che sapeva – perché lo aveva coordinato – del passaggio dei blindati con tanto di logo.
«Sono cose che succedono in guerra» commentò Netanyahu mentre le principali ONG lasciavano la Striscia. Ma non è una guerra se una sola nazione è dotata di esercito, se l’assenza di cibo diventa strumento di tortura, se non esistono risposte ma solo attacchi. Se la gente muore perché è così che deve andare. Se l’obiettivo è rendere Gaza ebrea, tutta Gaza.
Non è una guerra se esiste già un piano – casa, turismo, spiaggia, ristorazione – per le terre altrui da sempre vissute come proprie, da coloni, da invasori, da padroni. Se quel piano prevede giardini a forma di cuore da piantare sul sangue dei bambini. Non è una guerra se una zona designata da Israele stesso come “area umanitaria”, e in cui ha detto ai civili palestinesi di andare per trovare riparo, si scioglie nelle fiamme di una notte che tutto è tranne che un incidente. Non è una guerra se bruciano tende, corpi, umanità, diremmo, se non fosse già ampiamente bruciata. È un genocidio che ne giustifica un altro perché «è Dio che lo vuole». Ma quale Dio, ma quale volere. Quello che ci vede a sua immagine e somiglianza? Quello vendicativo? Che quello, se esistesse, ora sì, dovrebbe davvero punirci.