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Libano, Gaza, Siria, Yemen: il diritto di Israele a muovere guerra

Mariaconsiglia Flavia Fedele di Mariaconsiglia Flavia Fedele
8 Ottobre 2024
in L'Anguilla
Tempo di lettura: 6 minuti
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I semafori, in alcuni quartieri di Beirut, sono spenti. Le case sventrate. Le auto distrutte o sporche di sangue. Le strade puzzano di tossine e paura. Sanno di morte. Sono bastate poche ore di autunno a far piombare l’inferno in Libano. Sembra una guerra civile e, invece, è la solita vecchia storia, quella di Israele che invade e toglie il sonno a un popolo che da troppo è costretto a dormire con un occhio aperto. Nel sud del Paese, invece, non si dorme proprio più.

L’incubo è (ri)cominciato lo scorso 17 settembre, quando in tutto il Libano, in simultanea, sono esplosi i cercapersone in dotazione ai membri di Hezbollah, un’incredibile – e spaventosa – operazione dell’intelligence israeliana, seguita da altre esplosioni – come quella dei walkie-talkie – ma anche da telefonate e SMS ai cittadini libanesi affinché lasciassero le loro case. A due settimane da quel giorno, più di un migliaio è il numero dei morti, almeno 6000 quello dei feriti, un milione, invece, sono gli sfollati. Un bilancio che si aggiorna di minuto in minuto e che, come un paradosso, oscura le vittime che a Gaza non si contano nemmeno più.

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Chi può scappa in Turchia o, peggio, in Siria, il fantasma di un Paese da cui almeno due milioni di persone fuggirono in Libano negli anni più violenti di una guerra che ancora affama. Chi non può si allontana sempre di più dalle aree che di volta in volta finiscono nel mirino di Israele. Non soltanto delle sue minacce e dei suoi missili, ora anche di quelle che i media di Occidente – Italia compresa – si affrettano a chiamare raid mirati e incursioni limitate. Sono le operazioni via terra che l’IDF (Israel Defence Forces), sulla falsariga del 2006, ha avviato nella notte tra il 30 settembre e il 1 ottobre su ordine di Netanyahu e il benestare di Nazioni Unite ed Unione Europea.

La versione ufficiale è la difesa di Israele da Hezbollah, più nello specifico la rimozione dei suoi presidi dal territorio lungo il confine per garantire la sicurezza di coloro che abitano la parte nord del Paese; quella più vicina alla verità, invece, è l’ennesimo tentativo di imporsi con una violenza che dal 7 ottobre scorso non conosce fine.

La furia di Netanyahu si è abbattuta sul Libano con modalità simili a quelle della Striscia di Gaza e proprio alla Striscia di Gaza rischia di somigliare anche nelle parole del Segretario Generale delle Nazioni Unite, che se, da un lato, condannano Israele con risoluzioni non vincolanti, dall’altro lo sostengono economicamente e moralmente. Addirittura, gli consentono di presentarsi al Palazzo di vetro e di definire l’ONU – in casa propria – una palude di bile antisemita, una società terrapiattista anti-israeliana, un podio su cui si sono alternate bugie e calunnie.

Nel suo delirante discorso, il Premier israeliano non parla mai della proposta di tregua avanzata da USA (!) e Francia, i principali mediatori, né del massiccio bombardamento nel quartier generale di Hezbollah che sta per autorizzare direttamente dalla sua stanza d’albergo. In un solo giorno ucciderà più di 500 persone in quella che è già ricordata come una delle incursioni più mortali del XXI secolo.

In trentacinque minuti, però, trova il tempo per parlare di ipocrisia e doppio standard: «Fino a quando lo Stato ebraico non sarà trattato come le altre nazioni, […] l’ONU sarà considerato dalle persone imparziali di tutto il mondo niente di più di una sprezzante farsa». E potrebbe addirittura (quasi) avere ragione se la si guardasse dalla prospettiva opposta, ammettendo il doppio standard secondo cui se è Israele ad attaccare lo si chiama diritto a difendersi. Altro che antisemitismo.

Non è un caso che Hagari, uno dei portavoce in lingua inglese dell’IDF, ha presentato l’invasione in Libano come un’azione difensiva: Hezbollah stava preparando un attacco sullo stile di Hamas, ha detto, ma non lo ha dimostrato. Netanyahu ha ribadito che non si fermeranno, non fino alla vittoria conclusiva.

Intanto, il 27 settembre, Israele ha ucciso Hassan Nasrallah, il capo dell’organizzazione libanese e uno degli uomini più influenti del Medio Oriente. Il democratico Biden ha definito l’omicidio un atto di giustizia, ma prima ha premiato Tel Aviv con un pacchetto di 8,7 miliardi di dollari da dividersi in  3,5 miliardi per gli acquisti essenziali in tempo di guerra e 5,2 miliardi destinati ai sistemi di difesa aerea, tra cui Iron Dome, David’s Sling e un sistema laser avanzato. Questo pur sapendo che l’IDF avrebbe avviato le operazioni di terra, contravvenendo alla risoluzione 1701 del Consiglio di Sicurezza ONU.

È a questa che ha fatto appello l’UNIFIL, definendo una violazione della sovranità e dell’integrità territoriale libanese qualsiasi attraversamento del Libano. La United Nations Interim Force in Lebanon presidia la zona a cavallo tra i due Paesi dal 1978 con circa 10mila soldati ONU (un migliaio viene dall’Italia, la più grande missione all’estero delle forze armate italiane) che hanno lo scopo di evitare lo scoppio di nuove tensioni. Al netto del fallimento, da lunedì non pattugliano più la zona, pur restando in posizione nella propria area di responsabilità. A fare cosa, a questo punto, saremmo curiosi di saperlo.

Al contrario di quanto comunemente si pensi, Israele e Libano non sono separati da un vero e proprio confine. Piuttosto, dal 2000 esiste una linea di demarcazione chiamata Blue Line che è (o era) proprio sotto il controllo delle Nazioni Unite. Questa soluzione, in realtà, ha origini lontane: nel 1978, dopo la prima invasione israeliana, il Consiglio di Sicurezza ONU approvò la risoluzione 425, con cui impose a Tel Aviv il ritiro dal territorio libanese e l’istituzione della missione UNIFIL. Già nel 1982, però, Israele fece ritorno in Libano e vi rimase per i due decenni successivi. Fu in questo contesto, anche di guerra civile, che nacque Hezbollah. Sulla base della precedente risoluzione, dunque, l’ONU tracciò una nuova linea di demarcazione – in teoria temporanea – segnata da barili colorati da cui poi prese il nome l’odierno confine. Pur non riconoscendo la Blue Line, i due Paesi ne garantirono il rispetto, almeno fino a quando non sarebbe stata trovata un’intesa definitiva non ancora raggiunta.

Attualmente, la Blue Line è lunga 120 chilometri, divisa tra il Mediterraneo a ovest e dalle alture del Golan a est (territorio occupato illegalmente da Israele) ed è stata violata più volte. Per questo, nel 2006 è stata approvata la risoluzione 1701 – seppur in un modo confusionario che ha favorito la militarizzazione di Hezbollah – oggi ignorata del tutto, a testimonianza dell’impalpabilità delle Nazioni Unite e della certezza del doppio standard che garantisce a Israele totale autonomia guerrafondaia.

La conseguenza più evidente è che a Tel Aviv sono convinti di potere tutto, anche realizzare il tanto agognato genocidio palestinese, la conquista di Gaza e della Cisgiordania, fino ad arrivare a Beirut, con le prime dichiarazioni di alcuni ministri di Netanyahu che non ritengono il Libano uno Stato sovrano ma un appezzamento di terra su cui l’IDF ha il diritto di esercitare il proprio controllo.

Un controllo che è invasione e violenza, che genera odio e guerra, quella di oggi e quella di domani. In Medio Oriente, dove niente sembra poter porre fine alla lucida follia di Netanyahu – forse, potrà riuscirci Donald Trump tornando alla Casa Bianca, non per meriti (ovvio) ma per un disegno ben più ampio di cui parleremo poi –, e in Europa, dove non saranno le bombe a far paura, ma le ondate di migranti che per forza di cose arriveranno alle nostre porte, alimentando la propaganda delle destre sempre più estreme ormai in ascesa in tutto il continente.

Nel frattempo, Netanyahu è libero di invadere la Striscia di Gaza, la Cisgiordania, il Libano, di bombardare la Siria e lo Yemen, di riformulare confini e leggi, di minacciare l’Iran – che proprio in queste ore sta lanciando missili in Israele. Tutto mentre il mondo quando può guarda, quando non può accetta, impegnato com’è a non inorridire nemmeno dinanzi a brandelli di case, corpi, vite. Brandelli di popoli che non saranno più.

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