Un vecchio proverbio tedesco recita: Se a un tavolo di dieci persone c’è un nazista e gli altri nove non dicono nulla, quello è un tavolo con dieci nazisti. Chissà quanti Baudi vale, al Fantasanremo, Amadeus che nel corso della quarta serata del Festival 2024 legge il comunicato condiviso dalla RAI e da alcune delle rappresentanze agricole presenti nella città ligure.
È venerdì, la serata delle cover, gli ascolti sono altissimi. Non c’è momento migliore per difendere giustamente i diritti della categoria che (gli agricoltori, ndr) ritengono minacciata dalle nuove riforme europee del settore. L’ormai ex direttore artistico esprime la sua massima solidarietà ai trattori che da giorni marciano lungo le strade di Italia. Li ha persino invitati più volte sul palco, ma qualcuno, dall’alto, deve aver pensato che potesse essere troppo. Che a Sanremo la politica non entra. O forse sì. Entra se non disturba il padrone, anche se a questo padrone piacciono i trattori.
E, così, tra le co-conduttrici c’è “la sovranista più amata di Italia” (la stessa Lorella Cuccarini ha rivendicato più volte quest’appellativo); Massimo Giletti torna dopo anni di interviste e servizi dubbi su La7; ogni sera, sul palco e in platea, si alternano vanto e divise, l’Italia s’è finalmente desta: i carabinieri, gli alti gradi dell’esercito, le unità cinofile, l’inno di Mameli in diretta e in pubblicità a ricordarci chi sono gli italiani veri, quelli a cui aspirare. Pronti alla morte, l’Italia chiamò.
Ci sono, però, due ragazzi. Entrambi figli della stessa latitudine, entrambi legati in modi diversi alle loro origini, entrambi rei di non volerle rinnegare. C’è Ghali, migrante di seconda generazione, canta in arabo sulle note di Toto Cotugno, rivendica le proprie radici, chi è e vuole essere, un figlio di questa terra. È un cortocircuito totale, in casa centrodestra e, soprattutto, nel centrosinistra: dieci anni al governo e nemmeno uno Ius Soli. È bravo Ghali, evviva Ghali.
C’è Geolier, figlio di Secondigliano, la Napoli safari e timore, la Campania a cui togliere i voti, le scimmie da ammaestrare. Non solo un dialetto stentato che arriva a quei tanti che non hanno una lingua in cui esprimersi, addirittura il record di preferenze nella storia di Sanremo. Per ventiquattro ore è tutto uno stadio, Napoli colera la vergogna dell’Italia intera. È il Paese che non conosce unione, sono i giorni dell’autonomia differenziata, di Mameli che ancora sogna l’Italia. E pure noi spettatori inermi di uno spettacolo che ci è precluso.
Succede questo sul palco dell’Ariston, la platea che si alza e se ne va, il granitico Amadeus che tutto vede e niente controlla. Sembra non prendere posizione e, invece, zitto zitto, dell’elmo di Scipio si è cinto la testa. Lo ricorderanno per l’auditel, mica per il coraggio.
Legge il comunicato degli agricoltori Amadeus, quello sì, lo scorso anno persino le parole di Zelensky, che le vittime di guerra non si somigliano tutte. Ma tace quando Dargen D’Amico chiede il cessate il fuoco. Tace quando ogni sera Ghali trova il suo modo per denunciare quanto sta succedendo nella Striscia di Gaza. Tace quando Eros Ramazzotti dichiara secco “basta sangue, basta guerre”. Tace quando durante un collegamento sulla Costa Smeralda compaiono cartelli che invocano la fine della violenza e una bandiera palestinese. Non vede, non sente, non parla. Per giorni, nessuno dice niente. Si esprimono solo gli artisti, non tutti, ma qualcuno finalmente prende posizione. Un tempo era normale, oggi è sovversivo: la pace è incitamento all’odio.
Lo è per l’ambasciatore israeliano in Italia Alon Bar che ritiene vergognoso che il palco del Festival di Sanremo sia stato sfruttato per diffondere odio e provocazioni in modo superficiale e irresponsabile. Non è un atto ufficiale, lo scrive su X, dove sa che la sua voce non si perderà, ché quello sì che è il luogo giusto per odiare e provocare.
Accende la polemica, la vuole, è il suo messaggio di avvertimento che segue quello della comunità ebraica: ce l’hanno con Ghali, il suo brano è anti-israeliano. Con linee immaginarie bombardate un ospedale, canta il ragazzo, una esibizione che ha ferito molti spettatori.
Ghali – scrivono – ha proposto una canzone per gli abitanti di Gaza, ma a differenza di Ghali non possiamo dimenticare che questa terribile guerra è il prodotto di quanto successo il 7 ottobre. Provocano loro. Provocano sempre. Proprio non li vedono cinque mesi di massacri e settantasei anni di apartheid.
Roberto Sergio, l’amministratore delegato di TeleMeloni, risponde. Lo fa qualche giorno dopo, durante Domenica In, quando Mara Venier legge un altro comunicato. La nuova frontiera della comunicazione di una politica nostalgica:
Ogni giorno i nostri telegiornali e i nostri programmi raccontano la tragedia degli ostaggi nelle mani di Hamas. La mia solidarietà al popolo di Israele e alla comunità ebraica è sentita e convinta.
La tragedia di Hamas. Mica della guerra che guerra non è. Mica di Gaza. La sua solidarietà va alla comunità ebraica. Che muoiano questi palestinesi e non se ne parli più. La sua solidarietà va pure a Netanyahu verrebbe da pensare. Nemmeno questo è un atto ufficiale, eppure quello che è a tutti gli effetti un uso politico, e privato, del servizio televisivo pubblico diventa una scelta di campo inammissibile dinanzi alle telecamere pagate dai contribuenti. Diventa invasione. Negazione. Complicità.
Nelle stesse ore, nella Striscia si consuma l’ennesima violenza: i morti palestinesi superano i 30mila, i bambini uccisi da Israele sono 11500. Undicimilacinquecento. Bambini per sempre, bambini mai. Nelle stesse ore, Netanyahu ordina l’evacuazione di Rafah, poi la bombarda, mentre persino gli Stati Uniti cominciano a scaricarlo.
A Rafah vivono due terzi della popolazione di Gaza, 1,4 milioni di persone, 600mila bambini. Non si sa dove si suppone che vadano, in Egitto forse, dove sempre più vengono spinti i sopravvissuti della Striscia. È una storia di deportazione, un’altra, di cancellazione e sterminio. A dirlo non è Ghali, è un (ormai ex) ambasciatore israeliano, Dror Eydar. Lo dice in diretta su Mediaset, ma passa in sordina: «Noi non siamo interessati a tutti questi discorsi razionali. Noi abbiamo uno scopo: distruggere Gaza». E la stanno distruggendo. A Sanremo non se ne accorgono. Ma neppure fuori.
Serve Ghali, di nuovo lui, per convincere tv e stampa a usare una parola che solo a pronunciarla rimanda a luoghi e storie che ben conosciamo: genocidio. Il primo, a farlo, è l’alieno che lo accompagna in ogni esibizione: lo dice lui, stop genocidio, come a sottolineare che persino da lassù, dallo spazio, certa violenza è visibile ma se la pronunci sei strano. Sei sovversivo.
Quando Mara Venier legge il comunicato e ribadisce il sostegno suo e degli astanti all’Ariston alla nota dell’ad RAI, nessuno si alza, nessuno si dissocia, nessuno dei giornalisti in sala si rifiuta di continuare la farsa. Sarà l’eco dell’editto bulgaro, le mani della politica sul quarto potere, tanto pulite da non lasciare tracce. È così che funziona la libertà, si toglie a piccole dosi, ossigenando meno il pensiero, alimentando la fame, zittendo la coscienza. La musica suona, si ride, si canta, la zia di Italia manda la pubblicità: non vi faccio parlare più. Mettete in imbarazzo me. La condanna in un video. E, allora, non parlano più.
Ma non parlavano nemmeno prima quando ENI, main sponsor di Sanremo per il terzo anno consecutivo, riceveva il via libera da Israele per l’esplorazione e lo sfruttamento delle acque al largo della Striscia di Gaza. Il 62%, tra queste, rientra nella ZEE palestinese. Da un lato, dunque, Israele massacra, dall’altro rilascia licenze al fine di saccheggiare persino i mari. Distruggere Gaza è l’obiettivo. Cancellarla è ciò a cui ci stiamo prestando.
Non parlano i giornalisti, ora che le sedi RAI vedono manifestazioni pacifiche trasformarsi in rastrellamenti e manganellate della polizia. Parlano poco i colleghi de la Repubblica che denunciano, sì, la censura del direttore Molinari allo stesso Ghali ma ogni giorno contribuiscono, da mesi, a mistificare la guerra a Gaza come in Ucraina. Non parlano gli italiani, ancora a fare le pulci a Geolier, a cercare nel suo passato secondino. Ad accettare che la televisione da loro – e non per scelta – pagata diventi voce di partito e, quindi, di Paese.
C’è una stasi tale, in questa Italia, da far apparire sovversivi artisti che senza alcun clamore, gesto forte, richiamo alle masse, chiedono la pace. Mancano coscienza e politica. Insistono festa, farina, forca e Fantasanremo. Che quello è partecipazione. Il televoto come espressione di popolo e democrazia. La parola che più si svuota di senso e meno ce ne accorgiamo.
Amadeus si congeda commosso, Mara Venier pure pare abbia pianto in questi giorni. L’Italia continua a ridere.