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Gaza, un cimitero di bambini per cancellare la Palestina

Mariaconsiglia Flavia Fedele di Mariaconsiglia Flavia Fedele
16 Febbraio 2024
in Il Fatto, L'Anguilla
Tempo di lettura: 5 minuti
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È un campo di concentramento la Striscia di Gaza, l’Auschwitz dei giorni nostri, le bombe che piovono dal cielo e non lasciano via d’uscita. Nessun luogo è sicuro. Non lo era prima e non lo è adesso, che Israele uccide anche via terra. Le organizzazioni umanitarie chiedono aiuto, implorano lo stop alla violenza, invocano la pace. Ma pace, nel mondo del 2023, non è una parola da contemplare. Non nei palazzi che contano, quelli che decidono, quelli che trattano soluzioni non vincolanti destinate a fallire già in partenza.

È successo lo scorso weekend tra i corridoi dell’ONU. È successo con l’Italia, la Germania e il Regno Unito ostinati a inseguire la solita Casa Bianca assetata di guerra. Che se lei, senza, proprio non ci vive, noi – almeno – avremmo potuto provarci. E, invece, abbiamo scelto la via più facile: quella della violenza. Quella del sangue altrui. Quella degli affari. Siamo, in effetti, gli eredi più diretti di Ponzio Pilato. La differenza sta che lui scelse di lavarsene le mani, noi di macchiare dita e palmi già incrostati, ferrosi, nauseabondi, sporchi di chissà quanti morti.

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È un cimitero di bambini la Striscia di Gaza, lo ha detto persino quell’ONU lì, che non sa più come mistificare il massacro, nasconderlo, chiamarlo in modo diverso da quello che è. Ci gira intorno, i media dalla sua parte, ma fino a quando si può negare l’evidenza? Dallo scorso 7 ottobre, sono morti più di 9mila palestinesi: almeno 4mila erano bambini. E non è un caso, non in un fazzoletto d’Oriente destinato a non restare: uccidere i bambini significa uccidere il futuro, cancellare anche la più remota possibilità che esso si concretizzi. Uccidere i bambini è il primo, vero, passo verso lo sterminio di un popolo.

Nemmeno la scusa della vendetta regge più. Come si spiega un bambino massacrato ogni dieci minuti? Come si spiegano, in tre settimane, più infanti uccisi a Gaza di quelli uccisi in un anno nelle zone di guerra più violente dal 2019 a oggi? Lo dice Save the Children, non un opinionista qualsiasi: bombardare una zona così densamente popolata da minori di 18 anni significa bombardare l’infanzia. Dichiararle guerra. E che guerra è quando soltanto l’aggressore ha armi, esercito, soldi e sostegno internazionale? Che guerra è quando l’aggredito non ha nulla con cui rispondere?

Soltanto un anno fa, a interrogativi simili – in termini di aggressore e aggredito, non di forza economica (la Palestina non ne ha alcuna. N.B.: la Palestina non è Hamas) né di vittime civili – si rispondeva in modo unanime, a Montecitorio come a Bruxelles e Washington, che si dovesse sostenere con armi e risorse di ogni tipo la popolazione succube, in quel caso quella ucraina. Oggi – che, tra l’altro, del conflitto nel cuore dell’Europa non si parla quasi più – non si riesce ad avere la stessa reazione, la stessa condanna, lo stesso accorato appello nel pensare agli sfollati, agli uomini, alle donne, ai bambini costretti ad abbandonare le proprie case e, al contempo, a trovarsi rinchiusi in quella che dovrebbe essere la loro terra ed è, invece, una prigione a cielo aperto.

Non si commuove, in conferenza stampa, Ursula von der Leyen pensando all’arrivo dell’inverno, condannando gli atti di puro terrorismo, come chiamò nell’ottobre del 2022 la scelta di Mosca di tagliare acqua, gas ed elettricità a Kyiv. Parla di diritto alla difesa di Israele. L’Unione Europea sta con Tel Aviv. E tutti ad applaudire.

Ma come si spiegano i palestinesi, impiegati in Israele, costretti a rientrare a Gaza con codice identificativo e braccialetto? Come si spiegano i massacri, silenziosi, in Cisgiordania dove si ammazzano gli arabi e si bruciano i campi, le case, gli animali? Come si spiegano gli israeliani contrari al genocidio pubblicamente schedati sui social?

È l’inferno dei viventi la Striscia di Gaza, di quelli costretti a raccogliere cocci e brandelli delle loro vite, dei loro cari, dei loro sogni. I furgoncini dei gelati come obitori, le strade senza luce, senza acqua, senza gas o carburante, senza medicine. Non c’è cibo. Non c’è rifugio. Non c’è via di fuga. Ma nessuno, realmente, vuole che ci siano.

Lo ha detto, in queste ore, il Ministro della Cultura israeliano Amichai Eliyahu invocando la bomba atomica: «Sarebbe una delle possibilità, anche se ne andasse della vita dei 240 ostaggi israeliani perché le guerre hanno un loro prezzo». Netanyahu lo ha sospeso, ma è soltanto war washing, un sussulto di dignità di facciata: loro, dice, «operano sulla base del diritto internazionale, per non colpire innocenti». E, forse, ha ragione lui. Stupide le piazze – da New York a Sidney, passando per Parigi, Londra, Berlino, Roma – a pensare il contrario, a sospettare, a credere che sia genocidio. Non lo è per il Premier israeliano, non lo è per le (inesistenti) diplomazie, non lo è per il diritto internazionale. Il diritto di uccidere, a quanto pare. Sterminare va bene, cancellare è meglio, non ci sono innocenti, dobbiamo mettercelo in testa: essere palestinesi è la colpa.

Lo ha detto su Mediaset, in diretta, l’ex ambasciatore di Israele in Italia, Dror Eydar: «Noi non siamo interessati a tutti questi discorsi razionali. Noi abbiamo uno scopo: distruggere Gaza». Ed è, oggi, lo scopo di tutto l’Occidente. Lo conferma anche John Kirby, coordinatore delle comunicazioni strategiche della Casa Bianca, pure lui commosso un anno fa e adesso deciso a sostenere la causa israeliana, ad accettare i civili che ne pagheranno le conseguenze. Ha ragione il Ministro, le guerre hanno un loro prezzo.

Tutti stanno con Israele – non con la sua gente, in parte in piazza proprio contro le politiche di Netanyahu. Tutti stanno con il sangue. Tutti stanno con la fine dell’umanità. E lo rivendicano, lo rivendicano eccome. È un discorso che non si può nemmeno intavolare. Per fortuna, non per il direttore dell’ufficio di New York dell’Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i diritti umani che si è dimesso accusando l’ONU – in una lettera pubblica – di aver abbandonato e ignorato i suoi principi, il diritto internazionale, di non aver fatto nulla per evitare il bombardamento di Israele su Gaza, da lui definito un caso da manuale di genocidio.

Sarebbe bello se non fosse il solo, se tutti – alla sicurezza della propria poltrona – scegliessero di essere umani, di prendere posizione, di smettere la neutralità che altro non è che sostegno alla violenza sionista. Sarebbe bello se lo facessero certe istituzioni e i loro rappresentanti, tanta stampa, tanti attivisti, tanta inutile politica. Sarebbe bello se le piazze già invase da chi è contrario alzassero ancora di più la voce. Perché non è tempo di tacere, di chiedere permesso, di domandare attenzione. È tempo di fare. Affinché la Striscia di Gaza non sia una fossa comune. Un altro 27 gennaio.

Prec.

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