In un tempo lontano, prima che la storia marciasse per le colline e annientasse presente e futuro, prima che il vento afferrasse la terra per un angolo e le scrollasse via nome e identità, […] un paesino a est di Haifa viveva tranquillo di fichi e olive, di frontiere aperte e di sole. Nessuno, in Palestina, immaginava che un giorno, il 15 maggio 1948, Dio sarebbe morto in un fazzoletto d’Oriente. Lo avrebbero ricordato come al-Nakba, la catastrofe, l’anniversario della costituzione dello Stato di Israele.
Sono trascorsi settantatré anni da allora, tanto è cambiato, nulla è più come prima. A est di Haifa, a Gerusalemme, Tel Aviv, Gaza, in tutta quella che un tempo era Palestina e oggi non è più, guerra è la sola costante. Guerra è tutto ciò che Israele ha appreso dalla Shoah. Sempre meno Terra Santa, sempre più Paese militare, come lo definiva Primo Levi nel 1982. Lui che era sopravvissuto alle deportazioni, alla brutalità nazista, ai campi di concentramento, condannava le politiche sioniste sulla prima pagina de La Stampa. Oggi, nessuno dei principali quotidiani glielo permetterebbe. Perché se non apertamente pro Israele, ognuno sceglierebbe l’equidistanza. Che, poi, sono un po’ la stessa cosa.
Da giorni, la questione israelo-palestinese tiene banco ovunque nel mondo. Le immagini dei missili che bucano il cielo della notte orientale, i canti e i balli dinanzi alla moschea di Al-Aqsa in fiamme, i militari che deportano i manifestanti arabi e i nomi di quei tanti, troppi bambini che, ancora una volta, non sopravvivranno, rimbalzano sul web, indignano qualcuno e inorgogliscono qualcun altro. Nei palazzi che contano, tutti, da Ovest a Est, imbracciano le armi di un dibattito mai sopito e si fermano lì, nella migliore delle ipotesi a una condanna bipartisan, nella peggiore alla strenua difesa dell’unica democrazia orientale. In pochi, e perlopiù nelle piazze, si sforzano di raccontare le cose come stanno e, cioè, che l’apartheid iniziata nel lontano 1948, con la complicità occidentale – e, su tutti, degli Stati Uniti d’America – continua senza sosta.
Le violenze di queste settimane, in effetti, sono soltanto l’apice di una segregazione riacuitasi negli ultimi mesi. Mentre il mondo era intento a lodare Israele per la sua capacità di contrastare il Covid, attestandosi quale primo Paese per percentuale di persone vaccinate, infatti, lo stesso negava la somministrazione dei farmaci ai palestinesi che vivono nella Striscia di Gaza e in Cisgiordania nonostante ne avesse la responsabilità. Al contempo, nei territori occupati, perseguiva il suo intento di pulizia etnica.
Le recrudescenze dei primi di maggio si sono concentrate soprattutto a Sheikh Jarrah, quartiere di Gerusalemme in cui è stato disposto lo sfratto di alcune famiglie palestinesi. Prima, però, ci sono stati l’annullamento delle elezioni e le limitazioni imposte dalle autorità israeliane in vista delle celebrazioni del Ramadan. Si è poi arrivati alla Spianata delle Moschee con il lancio delle granate stordenti a danno dei tanti riunitisi presso uno dei luoghi di culto più importanti della fede islamica – lì dove le sacre scritture raccontano che Maometto sia arrivato dopo un pellegrinaggio a La Mecca per poi ascendere al cielo –, al fine di manifestare contro la marcia nazionalista che avrebbe commemorato la conquista di Gerusalemme Est avvenuta durante la Guerra dei Sei Giorni. Negli scontri, che hanno preceduto il lancio di razzi da parte di Hamas, sarebbero stati feriti almeno 300 palestinesi.
Intanto, nella notte di venerdì scorso, i contendenti hanno siglato un reciproco cessate il fuoco, ma la tregua potrebbe durare davvero poco. Negli anni, dopo giorni di crimini di guerra, di attacchi civili e morti – per un totale, stavolta, di 232 caduti palestinesi, 12 israeliani e miglialia di feriti – le operazioni belliche, quantomeno nella loro forma più violenta, sono state rinviate a più riprese e così si rischia di fare ancora. Le questioni, infatti, restano tutte irrisolte: il leader israeliano ne è uscito come sempre più forte, il gruppo di Hamas – che sapeva di non poter competere militarmente – ha rimesso il cappello sul conflitto, la comunità internazionale ha perso l’ennesima occasione per condannare la violenza sionista.
Molti – tra cui Antonio Guterres, il segretario generale dell’ONU, lo stesso organismo che ha definito illegali gli espropri di queste settimane – si sono detti preoccupati, mentre altri – come Luigi Di Maio e Matteo Salvini o i democratici Enrico Letta e Joe Biden – hanno fatto appello al diritto di esistere di Israele. Ma perché chi lo ha messo in discussione? Non è forse la sua ingombrante presenza a impedire la creazione e la coesistenza di due Stati diversi così come stabilito dai trattati internazionali?
Da sempre, i palestinesi reclamano il loro diritto al ritorno, sancito, tra l’altro, dall’articolo 11 della risoluzione 194 delle Nazioni Unite. Eppure, la furia sionista che da settant’anni nega vita e ricordo, emulando un genocidio che soltanto ieri ha visto gli ebrei arrendersi ai campi di concentramento tedeschi, vi si oppone con ferocia. Anche stavolta non si è tirata indietro. La scelta di Sheikh Jarrah, in fondo, non è casuale: il quartiere è uno dei punti nevralgici della Città Santa perché consentirebbe la contiguità territoriale tra i possedimenti ebraici e le colonie in Cisgiordania. Per questo motivo, l’area è al centro di un impetuoso tentativo di colonizzazione che Netanyahu e i suoi non hanno alcuna intenzione di arrestare.
La zona deve il proprio nome alla leggenda che vuole qui sepolto il medico personale di Saladino, il capo militare curdo che nel 1187 riconquistò Gerusalemme sconfiggendo i Crociati. Nei secoli, ha visto la compresenza di arabi ed ebrei perché, secondo la tradizione giudaica, in una grotta ai suoi margini, vi sarebbero i resti di Simeone il Giusto, il rabbino che avrebbe accolto Alessandro Magno al suo primo arrivo nella Città Santa. Con la costituzione dello Stato di Israele, il quartiere è stato velocemente evacuato per passare, poi, sotto il controllo della Giordania come tutta Gerusalemme Est. La linea di confine stabilita dall’ONU, in effetti, passava proprio di qui.
La situazione è cambiata nuovamente con la Guerra dei Sei Giorni e l’occupazione militare sionista. Da allora, dal 1970, Israele ha una legge che permette ai profughi ebrei di tornare nelle proprie case, anche se si trovano al di là dei confini riconosciuti a livello internazionale, come nel caso di Sheikh Jarrah. Al contrario, i profughi palestinesi – trasferitesi nel 1956 nei pressi della sepolcro di Simeone il Giusto con l’intercedere dell’ONU – sono destinati soltanto a resistere in una battaglia legale che li vede opporsi a Nahalat Shimon, un’organizzazione radicale religiosa, oggi proprietaria della tomba, che ha come obiettivo esplicito quello di ridurre la presenza araba a Gerusalemme Est. Agli abitanti della zona, inoltre, viene negato il permesso di costruire nuove abitazioni così, per fronteggiare il sovrappopolamento, i palestinesi sono costretti a trasferirsi in Cisgiordania o a costruire edifici in via del tutto illegale ed è a questo illecito amministrativo che si appella Netanyahu per demolire o espropriare.
La situazione dell’antico quartiere, però, non è un caso isolato: nell’area orientale di Gerusalemme quasi un migliaio di palestinesi, di cui la metà è costituita da bambini, è a rischio di sgombero forzato secondo la stessa logica espansionistica israeliana. Alcuni di questi sfratti si basano su rivendicazioni precedenti al ‘48, mentre ai rifugiati arabi è vietato reclamare le loro proprietà perse a ovest, corrispondenti a circa il 30% delle abitazioni. Eppure, la stessa legge degli oppressori che impedisce agli oppressi di tornare a vivere nei territori che oggi appartengono a Israele potrebbe rivelarsi, nel contenzioso legale di Sheikh Jarrah e non solo, un ostacolo non da poco: se ai coloni fosse permesso di sfrattare i colonizzati, infatti, si riconoscerebbe una sorta di diritto al ritorno inammissibile perché univoco. Inammissibile perché paleserebbe ancora – come se ce ne fosse bisogno – la natura impari e di quello che chiamano conflitto ma conflitto non è.
È facile comprendere che quelli che i media si ostinano a definire scontri non sono affatto tali. Sono piuttosto un attacco univoco e spietato nei confronti di una popolazione che chiede semplicemente di tornare a casa. Non si tratta di una querelle di tipo edile-amministrativo. Non sono edifici contesi, sono abitazioni e terreni rubati da chi oggi rivendica un diritto che non ha. Per questo la catastrofe non è solo una pratica di memoria, ma il tentativo costante di non soccombere, lì dove otto persone su dieci sopravvivono grazie agli aiuti umanitari, sfidando il buio della notte di una vita senza elettricità e la carenza di acqua potabile.
Netanyahu ha dichiarato che la battaglia in corso per lo spirito di Gerusalemme è la lotta secolare tra tolleranza e intolleranza, fra violenza selvaggia e mantenimento di ordine e legge. E forse ha ragione. Non sa, però, che l’intolleranza, la violenza selvaggia, il mantenimento di ordine e legge non appartengono a lui e al suo popolo. A uno Stato che non ha perso l’ennesima occasione per uccidere civili, per bombardare l’unico laboratorio Covid-19 di tutta la Striscia di Gaza impedendo, così, di effettuare lo screening utile a limitare il contagio in una delle aree con il più alto tasso di positività al mondo (28%) e gli ospedali colmi. Uno Stato che ha colpito persino la torre di Al-Jalaa, quella ospitante le redazioni di Al Jazeera e di Associated Press, per impedire ai media nazionali e internazionali di testimoniare l’ecatombe che ai palestinesi non viene mai risparmiata.
Eppure, Netanyahu e i suoi hanno poco da temere: la comunicazione giornalistica e politica di queste settimane, infatti, è stata ben attenta a costruire una narrazione che sovrapponesse Hamas alla Palestina, Israele alla vittima di un attacco ingiustificato e incomprensibile. La questione, vecchia come il mondo, a una disputa tra condomini. I numeri resi noti dalle Nazioni Unite, però, raccontano ben altro: sono 75mila le persone in fuga dai bombardamenti israeliani. Di queste, circa 47mila sono state accolte dall’UNRWA, l’agenzia ONU per i profughi palestinesi, mentre altre 28700 sono state accolte in case private. Qual è, dunque, il nome più giusto per definire ciò che sta accadendo tra Gerusalemme e Gaza? Non è, questa, apartheid, persecuzione, pulizia etnica? Non è, questo, un nuovo olocausto a cui il mondo assiste apparentemente inerme, ma nei fatti più che complice?
L’obiettivo è far scomparire i palestinesi dal dibattito pubblico affinché le ragioni dello scontro si perdano nella ricerca smodata di un colpevole che non sia Israele, un Paese che ha visto quattro elezioni in due anni e la crescita costante dei gruppi di estrema destra. Un Paese che gode del sostegno degli Stati Uniti e a cui l’Italia vende le stesse armi che uccidono la Palestina. Lì, dove un tempo lontano, prima che la storia marciasse per le colline e annientasse presente e futuro, prima che il vento afferrasse la terra per un angolo e le scrollasse via nome e identità, un popolo viveva tranquillo di fichi e olive, di frontiere aperte e di sole. Ed è li che deve tornare.