Da quando un proiettile ha colpito – o sfiorato – l’orecchio di Donald Trump sabato 13 luglio, sulla stampa americana, come su molta di quella europea, c’è stato un numero infinito di editoriali indignati che denunciavano la violenza e come l’attacco al Tycoon fosse, in realtà, un attacco alla democrazia. Al contempo, gli elettori statunitensi e i commentatori del resto del mondo si sono divisi tra chi crede si tratti dell’ennesima trovata del candidato repubblicano – decisamente avvezzo alla finzione – e chi, al contrario, vede in quegli spari la conseguenza più diretta delle dichiarazioni dei democratici in questa scadente campagna elettorale.
Chiarito che con l’uccisione di un avversario politico non si ottiene nulla e un assassinio fallito spesso eleva il bersaglio allo status di martire – finendo con il peggiorare la situazione – le immagini in Pennsylvania ci pongono dinanzi ad alcuni interrogativi: per quale motivo, se l’uso di minacce o, peggio, il ricorso alla violenza per attaccare la democrazia non è nuovo, stavolta sembra diverso? Perché si tratta di Donald Trump? Verso chi o cosa si stanno spingendo gli Stati Uniti e, quindi, il mondo?
Da presidente, candidato o semplice cittadino, Donald Trump ha sempre incoraggiato la violenza come unica soluzione. Basti guardare al caso Jean Carroll per cui il Tycoon è risultato colpevole di abusi sessuali, percosse e diffamazione (condannato a pagare 83,3 milioni di dollari). Violenze che tuttavia non sembrano un problema per i suoi elettori, donne comprese, e che invece già designano l’uomo che intende rappresentare ancora gli Stati Uniti. Ci sono poi le parole pronunciate quando le strade gridavano Black Lives Matter e l’allora Presidente chiedeva che i manifestanti venissero sparati alle gambe o qualcosa del genere. In quei giorni, mentre Minneapolis si macchiava di sangue nero, twittava: Quando iniziano i saccheggi, iniziano gli spari. Era una frase degli anni Sessanta, allora come oggi le proteste per i diritti civili – e per i diritti dei neri – andavano a ogni costo sedate.
Donald Trump è, poi, lo stesso uomo che ha spesso suggerito alla polizia di non essere troppo gentile, minacciato l’invio dell’esercito per fermare le rimostranze, innalzato un muro con il Messico e letteralmente ingabbiato i migranti sopravvissuti al Rio Grande. È l’incendiario dell’insurrezione del 6 gennaio 2021, il traditore di un Paese che ha guidato e che di qui a qualche mese potrebbe tornare a guidare.
Quel giorno, i sostenitori dell’ex Presidente fecero irruzione presso la sede del Congresso di Washington D.C. Quasi indisturbati, occuparono l’edificio, arrivando armati fino alle aule dove si riuniscono le Camere e dove, nelle stesse ore, i parlamentari erano in plenaria per ratificare la vittoria di Joe Biden. Già alcuni senatori avevano annunciato che avrebbero contestato il voto. Il Presidente uscente, a sua volta, lo aveva presentato come l’ultima occasione per evitare il trionfo dei dem. Di conseguenza, nei giorni precedenti gli elettori rossi avevano iniziato a radunarsi in città, finendo con l’occupare le scale del Congresso, poi le sue storiche stanze con una facilità decisamente sospetta, persino complice, di quelle forze di polizia così brave a sparare a un nero per il colore della pelle, eppure così inermi dinanzi a centinaia di golpisti.
Lo stesso Trump aveva invitato i suoi a recarsi a Capitol Hill, la collina del Campidoglio, gettando benzina su un fuoco che ardeva ormai da quattro anni. Ancora una volta – così come alle prime elezioni quando, pur ottenendo la vittoria, non era riuscito ad affermarsi al voto popolare – aveva ripetuto di non aver perso, di essere vittima di brogli elettorali che, tuttavia, non ha mai saputo dimostrare, perdendo almeno una cinquantina di cause e persino il ricorso alla Corte Suprema. E, così, ore 14:30 locali, quello che il Tycoon aveva dichiarato sin dall’inizio, chiarendo che non avrebbe mai pacificamente concesso la vittoria al suo avversario, si fece realtà in modo inaspettato.
Sin dal suo insediamento e fino ad arrivare ai giorni nostri, ogni momento della carriera politica di The Donald è stato segnato da una comunicazione performativa, dall’istigazione alla violenza, dalla fomentazione di un odio che, purtroppo, si è concretizzato in più occasioni: da Charlottesville a George Floyd, da Jacob Blake a Capitol Hill, fino all’episodio dello scorso sabato che ha visto proprio il Tycoon bersaglio di un giovane repubblicano.
Più volte Trump ha definito parassiti i suoi avversari e ha avvertito che potrebbe esserci un bagno di sangue se non dovesse vincere a novembre. E sebbene sarebbe errato attribuirgli direttamente la colpa dell’attentato o di chiunque non sia la proliferazione pericolosa delle armi che negli Stati Uniti si procurano con una facilità incredibile – anche grazie alle iniziative della sua presidenza – è giusto sostenere che la violenza contro di lui è un riflesso della sua stessa retorica.
Non era mai successo, nella storia delle democrazie costituzionali, che un Presidente incitasse le sue milizie armate ad assaltare un luogo sacro per la tenuta del Paese. Era però successo che una vittima – Ronald Reagan nel 1981 – si definisse salva perché è stato Dio solo a impedire che l’impensabile accadesse. In quell’occasione, il Presidente motivò l’intervento divino con l’indispensabilità della sua persona per porre fine alla Guerra Fredda. Oggi, forse, Trump potrebbe usare il conflitto in Ucraina o il suo amico Netanyahu come pedina di scambio per il miracolo. Davvero il candidato repubblicano pensa che Dio lo abbia salvato e, dunque, legittimato come un sovrano del passato? E perché questo Dio avrebbe scelto lui e non i bambini di Gaza? Come si ferma chi crede di avere l’Onnipotente dalla sua?
La gente ricorderà la foto di un Trump dall’orecchio insanguinato che agita il pugno di sfida, incitando anche qui alla lotta (Fight! Fight! Fight!), quando dovrebbe ricordare come si sia arrivati a tutto questo e perché nonostante ciò – l’odio, il sostegno ai suprematisti (persino il Ku Klux Klan), le condanne per violenza e frode fiscale, il Russiagate e tanto, tantissimo altro – un tentativo di assassinio renda o dovrebbe rendere un candidato più popolare.
«L’America è sotto attacco» hanno dichiarato alcuni dei presenti in Pennsylvania. Ma di chi? Se l’America fosse sotto attacco, non sarebbe Trump la vittima: lui che ha il sostegno degli uomini più ricchi e potenti del mondo – Elon Musk donerà alla sua campagna elettorale ben 45 milioni di dollari al mese per i prossimi quattro mesi – e la Russia non starebbe lavorando per farlo ritornare alla Casa Bianca, come sostenuto da alcuni funzionari dell’intelligence statunitense e come già successo in precedenza. Se l’America fosse sotto attacco, sarebbe da questi che dovrebbe essere difesa, da Donald Trump su tutti. Non con un omicidio, ma con un processo vero per i reati che ha commesso, con il voto, un’importante risposta elettorale di chi non vuole e non può permettersi che gli Stati Uniti finiscano, di nuovo, nelle mani di un criminale.
L’ascesa del Tycoon, lo abbiamo sottolineato spesso, ha cambiato la storia contemporanea, accelerando un processo già in atto ma pericolosamente concretizzatosi con il suo insediamento alla Casa Bianca. Non a caso, la sterzata a destra che la sua elezione ha dato al mondo ha significato il rinvigorimento di un’ideologia di stampo fascista che si riverbera oggi molto forte in Europa e che il Presidente stesso non ha mai rifiutato, nell’espressione più pura di quella mentalità schiacciasassi che gli USA portano avanti da sempre.
All’indomani dal 6 gennaio, era l’intera democrazia a doversi interrogare, a dover riflettere su cosa significhi quando la realtà è sostituita dalla performance e la fake politics scambiata per libertà. Oggi, non è molto diverso. Lo ha ribadito lo stesso Trump nel suo ultimo comunicato dopo i fatti di Capital Hill: «Anche se questa è la fine del più grande mandato della storia presidenziale, è solo l’inizio della nostra battaglia per rendere di nuovo grande l’America». Una sorta di stand back, stand by. State indietro, siate pronti. E loro si sono fatti trovare pronti. Chi avrebbe dovuto contrastarlo – non Joe Biden, soltanto l’altro volto della medaglia – decisamente meno. Ancora una volta, assolvendo i finti democratici, il mondo si prona ai repubblicani, il mondo si affida a chi ne ha già determinato la fine.