Negli anni più vulnerabili della giovinezza, mio padre mi diede un consiglio che non mi è mai più uscito di mente. “Quando ti vien voglia di criticare qualcuno” mi disse “ricordati che non tutti a questo mondo hanno avuto i vantaggi che hai avuto tu”. Non disse altro, ma eravamo sempre stati insolitamente comunicativi nonostante il nostro riserbo, e capii che voleva dire molto più di questo. Perciò ho la tendenza a evitare ogni giudizio, una abitudine che oltre a rivelarmi molti caratteri strani mi ha anche reso vittima di non pochi scocciatori inveterati.
Ci sono penne che trascendono la carta su cui si imprimono e la elevano, fino a trasformarla in uno dei doni più sacri che ci siano concessi in questa vita: il libro. Penne che sanno descrivere poeticamente la nostra fronte perlata quando, stanchi, ci guidano nel percorso più impervio e labirintico da affrontare: l’animo umano, così misterioso e complesso da non avere istruzioni per l’uso. Penne che restituiscono la fede persino a un ateo che non può non credere che vi sia un dio a muoverle. Impossibile, tra queste, non ricordare quella di Francis Scott Fitzgerald, una delle più incredibili che la letteratura ci abbia regalato.
Le pagine su cui si posa – troppo poche considerandone il potenziale – nascono nel mondo che si sviluppa tra le due guerre, nella Parigi degli anni Venti prima e nell’età del jazz poi, nel lusso ingannevole di una società ancora troppo fragile di cui, però, ci sentiamo parte, avvertendone, tuttavia, il peso ingombrante.
Lo scrittore, nato in Minnesota nel 1896 e morto a Hollywood nel 1940, idolo di quella che Gertrude Stein ha etichettato come la generazione perduta, è autore, infatti, di numerosi racconti e quattro romanzi – più un quinto rimasto incompiuto – che fanno di lui uno dei maggiori esponenti del XX secolo, portandoci per mano alla scoperta della giovinezza e della disperazione, temi apparentemente distanti, eppure drammaticamente vicini, e onnipresenti nei suoi scritti.
Tra questi, uno in particolare dallo scorso 2013 è tornato prepotente sui nostri comodini, grazie al contribuito del remake cinematografico che vede al centro della scena Leonardo Di Caprio: Il grande Gatsby.
L’opera, pubblicata per la prima volta a New York il 10 aprile del 1925, è considerata il “manifesto” per eccellenza degli Stati Uniti ancora ignari della crisi di Wall Street del 1929 e definita da T.S. Eliot il primo passo in avanti fatto dalla narrativa americana dopo Henry James.
Il romanzo, infatti, è un vero e proprio affresco della società nella quale si sviluppa, un ritratto fedele del “sogno americano” di cui, però, vengono fuori miti e contraddizioni che, in realtà, hanno segnato soprattutto l’esistenza – dannata – dello scrittore. Riflette, meglio che in tutti i suoi scritti autobiografici, il cuore dei problemi che lui e la sua generazione dovettero affrontare. […] In Gatsby, pervaso com’è da un senso del peccato e della caduta, Fitzgerald assume su di sé tutta la debolezza e la depravazione della natura umana, come ha affermato il suo biografo Andrew Le Vot. Non a caso, gli elementi che rimandano alla vita dell’autore non sono affatto pochi: dall’ascesa sociale alla bramosia costante di una (infelice) condotta alto-borghese, dall’alcol al Proibizionismo (all’epoca vigente nello Stato a stelle e strisce), dall’amore che si fa malattia e ossessione, come nel suo travagliato rapporto con Zelda Sayre, fino alla solitudine e all’annientamento di sé. Un’autobiografia, come molti l’hanno definita, in cui, attraverso gli occhi, il vissuto e, anche, il senso critico di qualcun altro, Fitzgerald ha tentato di risalire ai motivi che lo hanno fatto inabissare.
La sua vita era stata confusa e disordinata… Ma se poteva ritornare a un certo punto di partenza e ricominciare lentamente tutto da capo, sarebbe riuscito a scoprire qual era la cosa che cercava.
Quel qualcun altro è Nick Carraway. Il narratore, da poco trasferitosi a West Egg, località fittizia di Long Island, è il vicino di casa – ma anche l’opposto – del reale protagonista del racconto. Personaggio eccentrico ed enigmatico, Jay Gatsby – questo il suo nome (che scopriremo non essere vero) – è un self made man, un uomo che si è fatto da sé in modo, tuttavia, piuttosto sospetto e losco. Su di lui e sul suo passato, infatti, sono molte le storie che si raccontano. La sola certezza, invece, risulta essere il suo presente fatto di lusso sfrenato e feste sfarzose, nonostante un carattere alquanto schivo e scostante. In verità, a Gatsby dei privilegi e di una quotidianità da benestante interessa davvero poco: il suo unico scopo è ritrovare una donna, la luce verde metafora delle speranze, degli inganni e delle illusioni del protagonista.
Daisy Fay è il suo amore di gioventù, quello conosciuto prima di partire per la guerra, al quale ha giurato fedeltà eterna. Fedeltà che, però, la donna ha tradito sposando un famoso giocatore di polo, Tom Buchanan. Tuttavia, il trasferimento estivo di quest’ultima a East Egg, pseudonimo di Sands Point, sulla sponda opposta alla villa di Jay riaccende in lui vecchi sentimenti mai morti e lo tormenta al punto da tentare ogni mezzo per riconquistare l’amata.
Per Gatsby il desiderio di far rivivere il passato si trasforma in una vera ossessione, una malattia che lo logora e gli impedisce la normalità, offuscandogli completamente la ragione. Non è Daisy il suo reale bisogno, ma il sogno, l’idea di lei, alla quale, come linfa vitale, non può rinunciare. Jay è vittima di una nostalgia illusoria, di una luce verde che, come un’infezione, gli circola nelle vene e lo uccide, a poco a poco. È il riflesso di uno specchio andato in frantumi.
Perfino in quel pomeriggio dovevano esserci stati momenti in cui Daisy non era riuscita a stare all’altezza del sogno, non per sua colpa, ma a causa della vitalità colossale dell’illusione di lui che andava al di là di Daisy, di qualunque cosa. Gatsby vi si era gettato con passione creatrice, continuando ad accrescerla, ornandola di ogni piuma vivace che il vento gli sospingesse a portata di mano. Non c’è fuoco né gelo tale da sfidare ciò che un uomo può accumulare nel proprio cuore.
La scrittura limpida, pulita, elegante e senza sbavatura alcuna dello scrittore statunitense ci racconta tutto questo e molto altro, trasmettendo – forte – quel senso di solitudine che permea il romanzo sin dall’incipit, in un perfetto equilibrio tra imperturbabilità e tenerezza su cui incombe, costante, una drammaticità commovente.
Ma ad ogni parola lei si ritirava sempre più in se stessa, finché lui rinunciò e soltanto il sogno morto continuò a battersi mentre il pomeriggio svaniva, cercando di toccare ciò che era di più tangibile, sforzandosi, infelice e senza disperazione, di raggiungere la voce perduta di là dalla stanza.
Nel romanzo, come nelle altre opere dell’autore, la labile delicatezza del sogno si scontra, senza pietà, con la brutalità della realtà, in un valzer infinito al quale nessuno può sottrarsi. Una giostra che non smette mai di girare.
E mentre meditavo sull’antico mondo sconosciuto, pensai allo stupore di Gatsby la prima volta che individuò la luce verde all’estremità del molo di Daisy. Aveva fatto molta strada per giungere a questo prato azzurro e il suo sogno doveva essergli sembrato così vicino da non poter più sfuggire. Non sapeva che il sogno era già alle sue spalle, in quella vasta oscurità dietro la città dove i campi oscuri della repubblica si stendevano nella notte. Gatsby credeva nella luce verde, il futuro orgastico che anno per anno indietreggia davanti a noi. C’è sfuggito allora, ma non importa: domani andremo più in fretta, allungheremo di più le braccia… e una bella mattina… Così remiamo, barche controcorrente, risospinti senza sosta nel passato.