L’esordio di Charlotte Gneuß, classe ’92, in Germania ha fatto discutere. I confidenti, tradotto da Silvia Albesano per Iperborea, racconta il clima della DDR nel 1967 seguendo il punto di vista di Karin, una ragazza adolescente il cui passionale amore giovanile oltrepassa il confine senza lasciare traccia. Le discussioni, scaturite anche a causa del grande successo riscosso dal romanzo, ruotavano tutte intorno a un unico perno, che si potrebbe così riassumere: uno scrittore nato dopo la caduta del Muro di Berlino può rievocare un periodo così denso di storia e così fumoso nel ricordo persino di chi lo ha vissuto sulla propria pelle? Ne ha il diritto, la competenza?
Come se la letteratura non fosse un modo per esplorare l’inesplorato, la polemica che ha sollevato il romanzo all’uscita ripropone nella realtà attuale quella che pare la questione centrale proposta brillantemente da Gneuß: l’idea stessa del confine. Chi è a stabilire di volta in volta quali sono i confini entro cui mantenersi, le barricate da non scavalcare? L’abbiamo intervistata in occasione del Salone del Libro di Torino 2024.
Anzitutto una domanda sul modo in cui hai deciso di scrivere il romanzo. Colpisce in particolare lo stile del tuo esordio: scegli di utilizzare frasi brevi e incisive, all’interno di paragrafi altrettanto brevi e incisivi. Non di rado mancano i punti interrogativi nelle domande. Eppure, nonostante questo uso della punteggiatura, la protagonista ha un soprannome particolare: Virgola. Perché hai adottato questa soluzione? Come hai costruito il ritmo del romanzo, si è trattato di un processo lungo?
«Non posso parlare di un vero e proprio processo decisionale nel mio modo di scrivere. Tutto ha avuto inizio da tre frasi: le prime tre, nel libro, che io ho seguito. Sono loro ad avermi guidato verso un linguaggio prima e una storia poi. Io non sperimento tanto con la lingua, non procedo per tentativi o prove. Vado un po’ d’impulso. Un’azione che invece compio è il taglio. Mi viene facile tagliare o togliere cose che non mi convincono. Ho poche certezze e mi fido di poche cose. Però mi fido parecchio dell’intelligenza del lettore, del fatto che sia in grado di capire chi sta prendendo la parola e quando, malgrado l’assenza di virgolette; se quello che viene detto viene effettivamente esclamato da qualcuno oppure solo pensato. Inoltre, la lingua tedesca mi viene in soccorso perché la struttura sintattica di una domanda è diversa da quella di un’affermazione. Devo, però, anche ammettere che la protagonista è una persona che si esprime poco ad alta voce e pone poche domande. Dunque volevo concludere le sue domande con il punto perché era come se quell’unico segno di interpunzione andasse a soffocare i fievoli tentativi della protagonista di sollevare il dubbio. Di certo la punteggiatura è un mio grande interesse, altrimenti non avrei chiamato il personaggio principale Virgola. Così come la virgola sta tra due frasi, lei sta fra due mondi, due modi di pensiero. Ad esempio tra lo Stato e l’opposizione allo Stato, rappresentata da Paul».
Parliamo del valore della virgola o, se vogliamo, di un valore che chiamerei dello spazio di confine. Siamo abituati a concepire il confine come una linea di separazione e opposizione, soprattutto se pensiamo a quello che ha rappresentato e rappresenta tuttora nell’immaginario la divisione politica di Germania Est/Germania Ovest. Sebbene sia l’idea di confine come limite di demarcazione da non oltrepassare a prevalere, l’idea dell’esistenza di una virgola ci induce a pensare il confine come possibilità di realizzazione di sogni, speranze e anche ideali finanche contrapposti. La tua idea qual è?
«La cosa interessante quando si parla di confini è che in realtà oggi ci sono molti più confini invalicabili che ai tempi della DDR. Noi viviamo in un mondo in cui ci riteniamo liberi di viaggiare, di vivere perché siamo occidentali, ma ci sono tantissime frontiere che bloccano e chiudono e restringono le persone, mi riferisco ad esempio al muro fra Messico e Stati Uniti, alla Nord Corea, al Mediterraneo: altro confine invalicabile e terribile per tantissima gente. Per quanto riguarda la storia della virgola, direi che si tratta di un elemento che impone una scelta tra una parte e l’altra. Chi porta il nome di Virgola sperimenta sulla propria pelle entrambe le parti e sceglie di tornare indietro. Potremmo quindi dire che la virgola dia la possibilità di capire, di vedere, di vivere, pur implicando una scelta definitiva».
Di tanto in tanto, emerge all’interno del racconto la dimensione del sogno. Suggestioni che sembrano sopraffare Karin, la protagonista, nei momenti di inquietudine. Intervengono nella narrazione quasi interrompendola, in maniera brusca, come se lei si addormentasse di colpo e cadesse in un sonno profondo fatto di visioni che spezzano il racconto radicato nel reale, in quello che le accade attorno. Come utilizzi il sogno?
«Grazie per la bellissima domanda, non me l’hanno mai fatta. Nuove domande mi portano sempre a nuovi pensieri. Penso che i sogni arrivino sempre in un momento in cui è importante riflettere sulle circostanze e infatti a Karin appaiono quando non elabora delle situazioni. Ad esempio il primo episodio si verifica insieme allo shock di trovarsi davanti alla porta d’ingresso il collaboratore della polizia di stato e scopriamo come, nel corso del romanzo, i sogni si presentino sempre più di frequente. Forse si può dire che attraverso i sogni Karin perda poco a poco il controllo della sua realtà, dei suoi ricordi, del suo presente. Fino a non essere più padrona dei suoi pensieri. Sì, forse penso questo del sogno nel romanzo».
La dimensione onirica aiuta a restituire un’atmosfera a tratti claustrofobica e disturbante. C’è un primo piano narrativo, in cui tutto sembra solidale, amichevole. Le persone si aiutano fra loro, sono compatte, una piccola comunità unita fatta di famiglie che vivono insieme. Eppure, allo stesso tempo, è come se al di sotto emergesse un altro piano, uno fatto di non detti: sono molti i segreti sotto la superficie…
«Quello dei segreti è un piano di comunicazione alternativo: crea intimità. Ma nella realtà di Karin non era possibile dire la verità. Non poteva soffrire della scomparsa dell’amato Paul apertamente come avrebbe voluto. Però non si può vivere così, a denti stretti. A un certo punto, si scatena una reazione. Spesso, negli Stati totalitari – e qui ci sarebbe da discutere se la DDR lo sia stata e in che misura – fioriscono movimenti che si oppongono alla censura di sentimenti e pensieri perché la verità a un certo punto straripa. Così si verificano azioni radicali, come succede alla fine del romanzo. Mentre scrivevo, mi rendevo conto che ogni qualvolta la protagonista provasse a dire una verità, interveniva al suo posto l’interruzione, o la sequenza di sogno, spezzando sia la storia che l’azione. Forse è da questo che deriva la sensazione di claustrofobia. Si può avvertire soprattutto quando Karin si rifiuta di elaborare ciò che ha vissuto, fermandosi e cercando di ricominciare da capo. Prova a vivere senza fare i conti con la rielaborazione del passato. Credo che questa sia una caratteristica della nostra società, che ha imparato a non parlarsi. Abbiamo tutti questo deficit comunicativo e ce lo tramandiamo da generazioni».