Non serve essere architetti, ingegneri o designer per capire che un film come The Brutalist è sostanzialmente l’ennesimo prodotto di Hollywood che non serve a nessuno, né alla memoria delle persecuzioni subite dagli ebrei durante la Seconda guerra mondiale né agli storici dell’architettura né ai cinefili, perché non racconta nulla, non celebra nulla e non lascia nulla. E se fosse solo questo il punto del problema, passi: non tutte le ciambelle nascono col buco. A ciò si aggiungono innumerevoli inesattezze storiche, buchi di trama, personaggi che scompaiono senza capire dove e perché, scene messe a caso e una fotografia che non rende giustizia al tema.
Di che parla, alla fine, The Brutalist? Sono andata al cinema senza sapere cosa aspettarmi: non avevo nemmeno visto il trailer, sapevo solamente che era la storia di un architetto brutalista che emigra negli Stati Uniti poco dopo la guerra. Dunque si può dire che i miei occhi fossero assolutamente non influenzati da alcuna opinione esterna.
Ebbene, la trama che troviamo online ci dice che il film è ambientato nel 1947 (ma prosegue fino ad arrivare al 1980) e il suo protagonista, Laszlo Toth – personaggio mai esistito, quindi di finzione – scampa ai campi di concentramento di Buchenwald e riesce a imbarcarsi per l’America. Separato dalla moglie Erzsebet e dalla nipote Zsofia, dopo varie iniziali peripezie insieme al cugino Attila, conosce un industriale ricchissimo di Filadelfia, il signor Van Buren, che scopre la sua vera identità: Lazslo non è un comune emigrato che si piega a una vita da barbone, ma un architetto affermato che a Budapest, in patria, era anche piuttosto famoso. Estasiato dal suo stile – che lo dico subito a scanso di equivoci, non è brutalista, ma viene dalla scuola del Bauhaus – gli commissiona un edificio (non si capirà mai bene che tipo di edificio, se uno spazio polivalente, una chiesa, una palestra, una biblioteca o tutte queste cose insieme).
Questo edificio diventerà l’ossessione di Laszlo. Brevemente, grazie al mecenatismo di Van Buren, non solo tornerà a fare il suo lavoro, ma avrà modo di riavere con sé anche la moglie e la nipote. Poi le cose si mettono male: i capricci della ricca famiglia cominciano a emergere, Laszlo perde l’incarico, la moglie – tornata dall’Europa semi-invalida – si piega a scrivere di sciocchezze per un giornale locale, laddove in patria era una giornalista laureata a Oxford che trattava affari esteri, e la nipote Zsofia, che non parla, non si capisce bene cosa subisca da parte del figlio di Van Buren, se uno stupro, una violenza, una molestia. Il film non ce lo dice.
Successivamente, dopo una parte ambientata in Italia, a Carrara, le strade dell’industriale e di Laszlo si separano, poi si incrociano di nuovo. Il film conclude il suo percorso a Venezia, per la primissima Biennale, nel 1980, dove i lavori di Laszlo Toth vengono celebrati come quelli di un genio.
Cominciamo a sollevare i primi problemi del film: a mio avviso, Laszlo non è un genio, come ha affermato il regista. Ai miei occhi, si tratta di un uomo schiavo del suo egoismo, delle droghe, con palesi problemi di natura sessuale che, ancora una volta, il film non spiega. Potrebbe essere colpa dei traumi subiti nei campi di concentramento? Potrebbe essere un rifiuto alla fisicità interrotta della moglie? Non ci è dato sapere. Fatto sta che a un certo punto del film, Laszlo assume una dose di oppio insieme alla moglie dolorante e magicamente i due fanno l’amore. Subito dopo Erzsebet va in overdose ma, magia delle magie, nella scena successiva la vediamo in piedi, senza una spiegazione valida, quando fino a pochi minuti prima era costretta su una sedia a rotelle e a letto, piegata in due dai dolori alle gambe.
Secondo problema, e mi riallaccio a questo topic: quando Laszlo e il signor Van Buren si trovano a Carrara, senza un anticipo di trama né avvisaglie che potessero prepararci all’evento, assistiamo a uno stupro da parte di Van Buren sull’architetto. Una scena completamente messa a caso, slegata da tutto il resto della trama, che non ha legami col passato né col futuro. Insomma, una specie di tassello di puzzle che non si incastra con l’insieme. Van Buren è omosessuale? O è solo un modo per punire Laszlo, ma di cosa? Perché? Tra l’altro, se posso dire, tralasciando la sostanza, anche la forma non è un granché: la scena non è credibile, risulta forzata, quasi comica, Van Buren si slaccia i pantaloni, lo infila a Laszlo, dopo cinque secondi tutto finito. Mi lascia estremamente perplessa, se non profondamente infastidita.
Parliamo poi del titolo, che io credo fuorviante: se ci affidiamo alla parola brutalista, intuiamo che il film tratti in qualche modo il tema, dunque l’architettura, la parte progettuale del lavoro, una fotografia che insiste sugli spazi, sugli edifici, sul modo in cui quella corrente ha influenzato le epoche successive col suo stile. Ebbene, il film non racconta niente di tutto questo: se non per una piccola parte in cui vediamo Laszlo disegnare e costruire un modellino, di brutalista insomma non c’è niente, se non la noia di tre ore e mezza non giustificate da una trama solida.
Il film racconta la storia di un uomo ungherese ebreo che esce da un campo di concentramento e va in America a tentare di rifarsi una vita. A livello tecnico non viene approfondito niente. I lavori dell’edificio che deve progettare si interrompono all’improvviso per un treno pieno di materiali che deraglia, una scelta narrativa forzata che non regge tutta l’impalcatura precedente, ovvero l’ossessione di Van Buren per un luogo che celebri la morte dell’amatissima madre, l’ossessione di Laszlo che non combatte per tenersi il posto, i milioni di dollari spesi.
I personaggi scompaiono all’improvviso: il caro amico di Laszlo, incontrato a inizio film quando erano entrambi praticamente dei barboni, dopo una discussione, scompare. Personaggio interessante buttato nel dimenticatoio. Così anche lo stesso Van Buren: dopo l’overdose di Erzsebet, lei – Lazzaro che cammina per miracolo – va a casa dell’industriale e lo accusa dello stupro al marito. Uscita di scena, vediamo (anzi, non vediamo) la sparizione di Van Buren: dov’è andato? Perché? Si è suicidato per la vergogna? È un’ammissione di colpa? Non si capisce che fine faccia. Semplicemente si ecclissa, un personaggio principale tanto quanto Laszlo.
L’ultimo quarto d’ora poi è il capolavoro del cringe: siamo nel 1980 a Venezia, Laszlo è su una sedia a rotelle, vecchio, ma viene celebrato come un genio dell’architettura. Intanto, primo errore: nel 1980 il brutalismo e la scuola del Bauhaus erano passate di moda; secondo errore: l’attrice che interpretava Szofia magicamente passa da essere la nipote di Laszlo alla pronipote, con una confusione tremenda per lo spettatore. Il personaggio di Erzsebet muore, non si sa quando né perché. Sappiamo solo che, esaurita dalla “malvagità” degli Stati Uniti, decide di tornare a Gerusalemme, dunque presumo muoia in Israele.
Le transizioni con cui sono montate le scene, che sembrano prese da Rai Tv Rubrica di Cucina, sono il culmine del grottesco: non è che perché il film salta al 1980 che si giustificano transizioni a zig-zag che nemmeno si sono mai viste sul Cioè. Il finale è frettoloso, arrangiato, comico. L’unico elemento interessante è la spiegazione di Zsofia ormai donna adulta che racconta il motivo per cui lo zio Lazslo amava quel tipo di architettura: perché voleva restituire in forma fisica la sua esperienza claustrofobica del campo di concentramento. Perché dirlo alla fine? Perché non farne un tema cardine che avrebbe giustificato il titolo e la storia?
A livello di fotografia, che avrebbe dovuto essere il motore di tutto il film, non noto niente di spettacolare: The Brutalist è stato definito monumentale, colossale, ma io non ho visto niente né di monumentale né di colossale, se non gli errori di trama.
Dunque cosa racconta il film? Cosa ci lascia? Che storia è? La storia di un uomo scampato ai campi di concentramento, la storia di un oppiomane, un’infarinatura superficiale e non corretta di ciò che è stato il brutalismo e il Bauhaus, una critica al capitalismo corrotto? Non ho ben capito. Tre ore e mezza di totale noia, non sorretta da una scrittura valida, l’ennesimo sterile film che racconta i traumi di un uomo ebreo scampato alla morte. Che, sottolineo, è giusto celebrare, ma senza nasconderlo dietro aspirazioni illuminate sul racconto del brutalismo o della storia dell’architettura dagli anni ’40-’50 del Novecento.