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Il corpo, lo specchio: “Quello che (ve)diamo e che ci viene restituito”

Deborah D'Addetta di Deborah D'Addetta
17 Settembre 2025
in Paprika
Tempo di lettura: 12 minuti
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Ricordo l’istante in cui, per la prima volta, ho davvero guardato il mio riflesso allo specchio. Ti vedo, ho pensato. Ero adolescente, mi ero già specchiata altre volte, ma l’esatto momento in cui ho percepito quella figura come mia, proprio quella figura e non altre – non l’immagine che le persone, da fuori, mi restituivano oppure l’idea fantasticata di quello che poteva essere il mio corpo, il mio viso – fece da spartiacque. Il secondo fu cominciare a utilizzare la macchina fotografica, sempre allo specchio, in un doppio gioco di riflessi, di ribaltamento di ciò che è capovolto per tornare alla sua “vera” forma.

Quando mi trovo davanti a uno specchio ho come l’impressione di non essere sola. Insieme a me, nella stanza, c’è qualcun altro, un’altra me in forma diversa, intangibile eppure presente. È lì, nello specchio, ma si muove in modo strano, ha gli occhi leggermente asimmetrici, i capelli che cadono rivoltosi, ha un neo che non ricordavo di avere. Mi domando: è così che mi vedono gli altri? Allora quale sono io? Quella che penso di essere o quella che sfugge al mio sguardo?

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Michel Foucault in Utopie. Eterotopie (Cronopio Edizioni, 2006) disse che sono il cadavere e lo specchio che ci insegnano che abbiamo un corpo, un corpo che occupa un luogo. Pensiamoci un attimo: ci è impossibile vederci dall’esterno, staccarci da noi stessi per osservarci “da fuori” come fanno gli altri. Dovremmo essere morti e trasformarci in un fantasma aleggiante oppure, in modo più pratico e meno definitivo, guardarci allo specchio o in una fotografia. E però, lo specchio e la fotografia non sono strumenti così fedeli, anche se lo si pensa, perché quello che vediamo è ribaltato, non rispetto al modo in cui appariamo agli altri, ma al modo in cui appariamo a noi stessi.

Si può dire che lo specchio sia un contro-spazio, un luogo vero fuori da ogni luogo. Va da sé che quando la nostra figura entra proprio in quello spazio, qualcosa accade.

Qualcuno potrebbe dire che è una questione di narcisismo: certo, lo è. Ma non finisce qui.

Roland Barthes nel suo saggio La camera chiara (Einaudi, 2003) distingue tre elementi fondamentali dell’arte fotografica: l’operator, ovvero colui che fa la foto; lo spectator, ovvero il fruitore, lo spettatore; e lo spectrum, vale a dire il soggetto immortalato.

La straordinarietà sta qui perché mentre realizzo un autoritratto allo specchio questi tre soggetti coincidono: io sono colei che fa la foto e, al tempo stesso, sono anche spettatrice e soggetto immortalato. Allora non è solo narcisismo, ma anche solipsismo, ovvero individualismo, accentramento su di sé. Non vedo altre alternative quando decidiamo di metterci davanti a uno specchio e fermarci a guardare, guardare davvero, con intenzione. Solitamente si scoprono cose interessanti.

Il fatto è che non tutti amano guardarsi allo specchio: è un oggetto liminale, di confine. Nello spazio tra noi ed esso esiste un tempo e uno sfasamento, una sorta di glitch. Questo è il motivo per cui dicevo che percepisco presenze altre, che sono me ma non sono me, che attraversano una soglia (e, qui, non posso non pensare a Lewis Carroll).

Uso il termine liminale per un motivo: se scattiamo una fotografia davanti allo specchio i margini si moltiplicano, non solo le due espressioni tangibili – la lente della macchina fotografica e la cornice appesa davanti a noi – ma soprattutto lo scarto tra noi e il nostro riflesso. Ciò che succede nel tratto che ci separa dallo specchio può essere questione di pochi centimetri o di qualche metro – una fotografia nel bagno di casa o nel camerino di un negozio, luoghi piuttosto ristretti o, per contro, una fotografia davanti alla vetrina di un bar o in una camera d’hotel – ma la domanda cardine resta la stessa: chi siamo quando scattiamo una fotografia di noi stessi davanti allo specchio? L’immagine reale e fedele del nostro corpo o il riverbero di un altro io indipendente da noi, più simile a quello che gli altri vedono quando ci muoviamo nel mondo?

Ho provato a chiederlo alle persone che seguono i miei sondaggi, e a prescindere da considerazioni come “mi vedo bello, mi vedo brutto”, del tutto legittime tra l’altro, mi sono state restituite opinioni davvero profonde.

A: “Esiste uno sfasamento. A volte attrae, altre respinge. Ogni tanto provo a controllare i segni del tempo, ma vedo il volto asimmetrico, come se qualcosa lo spingesse da dentro, allora penso ad altro. Capita più di rado di ammirarsi, ammirare più che altro la sfumatura di un’espressione che si vorrebbe conservare. Credo sia una cosa soggettiva. Anzi, ritengo che alcuni abbiano un rapporto amichevole con lo specchio, lo usino per interrogarsi o per fotografarsi, forse anche per parlare. Come una lavagna. Per alcuni è un lago nero sopra il quale il gesso stride. Per altro un oceano creativo dove lasciare un segno”.

F: “L’’uomo è la misura di tutte le cose. Di quelle che sono in quanto sono e di quelle che non sono in quanto non sono. Lo specchio per me, oggi, nella società contemporanea è l’uomo di Protagora. Abbiamo adottato un sentimento per il quale ciò che vediamo dall’esterno è più vero di come siamo nella realtà. Lo alimentiamo quotidianamente, lo modifichiamo una volta fotografato, specchio riflesso di tutti i nostri pregiudizi, su di noi e su gli altri. Ci guardiamo dall’esterno usando proiezioni, una specie di trigonometria emozionale. Non ci guardiamo più dall’esterno nemmeno attraverso gli altri, è una questione più sottile. È guardando gli altri che proiettiamo il nostro essere sovrapponendolo a ciò che scorriamo e vediamo velocemente soprattutto sui social e molto meno per strada. Si diceva prima che ci si vedeva come riflessi in uno specchio appannato dal vapore. Ora siamo quel vapore, qualcosa di estremamente superficiale”.

B: “Secondo me, quando ci guardiamo allo specchio non ci vediamo come ci vedono gli altri, perché noi non guardiamo noi stessi allo stesso modo di come guardiamo agli altri. Ho avuto modo di rifletterci proprio di recente quando ho osservato me stessa in dei video che mi erano stati fatti mentre non me ne accorgevo e ho pensato: ecco come mi vedono gli altri. L’ho fatto mille volte, di guardarmi allo specchio e parlarmi per esempio, e noto di avere uno sguardo completamente diverso da quello che – probabilmente – ho quando parlo con qualcun altro. Non mi posso guardare mentre lo faccio, e se potessi farlo sarebbe comunque viziato. Questo poi viene confermato dal fatto che quando invece so di essere osservata mi comporto in maniera diversa e risulto (a mio avviso) molto innaturale. Secondo me il vero io, quello meno condizionato, è quello che viene fuori quando non c’è alcun osservatore: sia che l’osservatore sia un altro o te stesso. Per quanto riguarda la percezione del corpo, nel mio caso non sono mai riuscita ad essere oggettiva e riconoscere alcune cose che riconoscevano gli altri. Oggi guardo le mie foto di tanto tempo fa e penso: madonna, ero così, come se guardare una me stessa che non c’è più è l’unica chance che ho per riuscire a vedermi per quello che sono (ero)”.

Vorrei insistere su un passaggio citato dal mio primo interlocutore: alcune persone non usano lo specchio solo per ammirarsi o trovare conferme, ma soprattutto per porsi delle domande. Il motivo per cui mi stizzisco quando qualcuno mi chiede perché mi autoritraggo allo specchio, e perché condivido poi quei risultati, sta nella difficoltà di far capire che, oltre a un certo compiacimento, c’è anche una ferma volontà di capire il proprio corpo, interrogarlo, tradurlo, e il fatto che questo corpo sia più o meno piacevole è solo una distrazione, per me stessa e per gli altri. Che sia conforme alla norma (di nuovo, quale norma?) non vuol dire che sia esente da un bisogno di ricerca intima.

Molte delle donne che hanno risposto al sondaggio hanno confermato questa idea:

S: “Sto imparando a guardarmi senza giudicare. È una cosa che faccio solo con me. Amo le persone diverse, libere e che si piacciono. lo mi piaccio, non sempre, temo il giudizio degli altri perché io giudico me stessa. Mi piace essere guardata, che non vuole dire attirare l’attenzione in modo estroso, ma perché io sono io. Il problema sta che quando un uomo mi guarda (questo non mi capita con le donne) mi sento ammirata ma anche imbarazzata perché giudicata. Capisco che queste cose sono un insieme di contraddizioni. Penso che la gente veda solo una parte di me, quella che io voglio che vedano. Vedersi per ciò che siamo non è l’immagine riflessa da uno specchio, ma una autoanalisi. Essere consapevoli di quello che abbiamo dentro senza fingere all’esterno una cosa differente. Il fatto di posare per dei ritratti per me non è mostrare solamente il mio corpo, ma fare vedere chi sono interamente. E qui ho notato una cosa: se una donna è una modella o un’attrice nessuno chiede nulla, è il suo lavoro, essere bella e apparire. Se lo fa una scrittrice come nel tuo caso o una educatrice come nel mio diventa inimmaginabile. Ne avevamo già parlato. La risposta migliore sarebbe: mi piace guardarmi nuda, ammirarmi ed essere ammirata. La gente non è curiosa, questa è una qualità, ma impicciona”.

C: “Per me lo specchio è una misura. Il mio corpo è cambiato dopo la maternità, è maturato sessualmente, ma esteticamente mi è diventato distante. Vedo una versione di me diversa a livello umano, sessuale ed estetico. Il corpo per ospitare corpo si allarga e rimpicciolisce, si distanzia da sé. Il mio probabilmente ha sofferto di essere stato per tanto tempo un mezzo per dare vita e ora la forma che gli è rimasta non soddisfa né me né lui. Non mi riconosco ora e non mi riconoscevo anche prima, ma ora il distacco è peggiorato. Lo esorcizzo spesso con la fotografia, mi scatto foto e le tengo per me”.

C: “Non sono mamma ma percepisco il distacco come derealizzazione. Forse al di là della positività o negatività del giudizio quello che ci atterrisce (almeno nel mio caso) è il fatto che quello che pensiamo di noi non corrisponde alla realtà. Cioè, il modo in cui ci immaginiamo, il nostro io come concetto, non potrà mai rispondere a un concreto che noi chiamiamo corpo o carne. Allo stesso tempo, però, condivido anche l’idea di guardarsi nudi (e magari essere anche eccitati da questa visione, come nel mio caso). Secondo me è tra queste due idee che potremmo collocare l’erotico”.

U: “Non ho mai avuto un buon rapporto con la mia immagine allo specchio, tantomeno con la mia immagine immortalata in fotografia. Quel che quelle immagini mi rimandavano, ai miei occhi, era solamente una sottolineatura di quelli che io vedevo (vedo) come difetti o cose di me che avrei voluto diverse. Il mio è sempre stato uno sguardo impietoso. Più mi guardavo, più cercavo di nascondermi in tutti i modi, per tentare di essere invisibile: niente trucco, niente abiti succinti, nulla che potesse farmi in qualche modo notare, anche per timore dello sguardo altrui che non avrei saputo gestire.

I miei occhi, ho capito da qualche tempo, sono giudici impietosi e crudeli.

Poi è successo di aver perso mia madre, 5 anni fa, per Covid. Aveva 61 anni. Si era sempre trascurata, era tutto solo per gli altri. Mai qualcosa per apparire più bella, pochi vestiti nuovi, niente trucco. Mi sono detta: prima di morire, vorrei vedermi bella, fosse anche solo per una volta. Ho iniziato a capire cosa potesse starmi bene adesso, che ormai ho superato i 40 anni. Ho eliminato vestiti che camuffavano le mie forme e ho osato qualche gonna corta. Ho imparato a truccarmi. Ho iniziato a fotografarmi, per presentare me stessa a questa nuova me, con cui faticavo ad immedesimarmi. Ho visto per la prima volta, davvero, i miei occhi e quell’espressione sempre un po’ malinconica. Ho visto un bel collo, delle mani affusolate e gambe lunghe. Mi sono detta: non mi ero mai vista davvero.

La fotografia mi ha aiutata a vedermi anche attraverso lo sguardo altrui e mi ha fatto capire quanto ognuna delle persone che incontro vede in me qualcosa di diverso, qualcosa cui non avevo prestato attenzione. Sto imparando, percorso mai concluso, a far pace con quell’immagine, quella che vedo ogni giorno come riflesso”.

F: “Il punto è che non sappiamo come ci vedono gli altri. Se i nostri difetti, quelli che ci fanno vergognare tantissimo, sono la prima cosa che notano o non ci fanno neanche caso. Allo specchio, nei giorni buoni, cerco di concentrarmi sui punti che preferisco di me (gli occhi) e lasciar perdere il resto, se non voglio entrare in un loop negativo. So che lo specchio non riflette il reale, ma per me reale è ciò che vedo e quindi quello che vedo è il mio reale”.

È proprio questo che intendevo con “capire il proprio corpo”. Guardarsi o fotografarsi allo specchio non è mai solo un mero esercizio autoreferenziale e questo è vero per tutti, ma per le donne un po’ di più, per volontà di riappropriazione, di autoaffermazione, di acquisizione di un potere su ciò che è loro e di nessun altro.

E allo stesso modo è legittima anche la negazione: due o tre degli uomini che hanno risposto al sondaggio evitano di guardarsi, rifuggono la propria vista.

D: “Lo specchio per me è un nemico, come è un nemico il mio corpo. Quello che vedo è sempre dissociante, sempre scomodo, sempre altro rispetto a quello che sono io. Per me si è sempre posto il problema di dover fuggire dagli specchi per evitare me stesso, soprattutto il nucleo centrale del mio corpo, soprattutto il mio viso, soprattutto i miei occhi. Non vedo la persona che vorrei essere ma vedo la persona che, per disgrazia, sono.

In fondo lo specchio non è l’immagine reale ma è come una fotografia, È una proiezione di quello che noi siamo, in negativo se disforico o in positivo se euforico”.

B: “Io allo specchio non mi guardo mai, perché non mi piaccio. Mi sembra tutto di una banalità disarmante. Non mi piaccio perché vedo i tratti di mio padre che ho odiato, vedo i tratti di mia madre che non mi ha difeso. Vedi le cicatrici che non sono ancora riuscito a curare, vedo un riflesso di me stesso che non ho deciso io, vedo quei difetti che non posso controllare. I capelli che cadono, i peli che coprono un piccolo corpo. Un piccolo corpo che non cresce nonostante l’allenamento e qui il colpo di genio, il paradosso più tragicomico: mi alleno lontano dagli specchi per non avere l’illusione di diventare grosso fuori ma restare piccolo dentro. Sopravvivo con una routine banale, guardaroba basic monocromatico, piccoli gesti di cura personale ripetuti, memorizzati per evitare ogni contatto con me stesso”.

Qual è il nostro “vero” corpo? Quello che esiste o quello che viene percepito? Quello che possediamo in quanto contenitore che abitiamo o quello che gli altri determinano col loro sguardo? Probabilmente è una domanda da un milione di dollari, ma credo che, a voler essere un po’ presuntuosi cercando di dare una risposta, la migliore ipotesi è che il nostro corpo sia un oggetto plasmato dalla sua stessa esistenza e dal modo in cui noi stessi lo vediamo, lo tocchiamo, lo usiamo, ma anche dall’esistenza altrui, dalle persone che amiamo, che odiamo, che incontriamo e dal modo in cui loro stessi lo vedono, lo toccano, lo usano. Non sono convinta si possa scindere questo doppio sguardo.

Neil Leifer, fotografo statunitense famosissimo per le sue foto a Muhammad Ali, disse: “La fotografia non mostra la realtà, mostra l’idea che se ne ha”. Se seguo le sue parole, gli autoritratti che produco non mostrano chi sono veramente, ma l’idea che ho di me stessa, e così mi viene un dubbio: questa idea è vergine e pura o è corrotta dal mio stesso riflesso?

Un autoritratto è, per forza di cose, il prodotto di una finzione. Se fosse davvero reale allora non mi affannerei così tanto a cercare una certa posa, a indossare una maglietta invece di un’altra, non cercherei di mettermi nella luce corretta, scatterei così come viene per restare il più possibile aderente al vero. Eppure non lo faccio: voglio apparire nella forma migliore – ma quale forma? La mia o quella dello specchio? – voglio che il risultato sia piacevole, più piacevole del previsto. E per questo, forse, che quando ci mostrano una fotografia in cui siamo venuti particolarmente bene quasi non ci crediamo: sembriamo così diversi, così estranei, non sembriamo nemmeno noi.

Queste domande sono quelle che preferisco e uno dei luoghi in cui cerco di trovare le risposte è proprio lo specchio. Innegabile che io sia avvantaggiata perché quello che lo specchio mi restituisce mi piace ed è sempre stato così.

C., una delle ragazze che ha risposto al sondaggio, ha scritto: “È tra queste due idee che potremmo collocare l’erotico”. Io credo che l’erotico si manifesti nel momento in cui ciò che guardiamo allo specchio aderisce all’idea di come pensiamo a noi stessi, nello spazio dove ciò che immaginiamo sia il nostro corpo è identico a ciò che vediamo riflesso.

È innegabile che, proprio in questa sovrapposizione perfetta, ci può essere del piacere. Come dicevo prima, è un po’ come quando in una fotografia che ci hanno scattato ci vediamo belli. Sì, ci chiediamo se siamo davvero noi, ma in fondo ci compiacciamo. Scatta quasi l’euforia. Perché? Non si tratta solo di vedersi piacevoli, sensuali, attraenti, soprattutto agli altri (perché se quella fotografia risulta bella a noi a posteriori vuol dire che nell’esatto momento in cui è stata scattata eravamo già belli in mezzo agli altri) ma di avvicinarsi al nostro ideale, a quello che immaginiamo sia il nostro corpo al suo meglio.

E quando appariamo al nostro meglio, non è più solo una questione di esteriorità, ma anche di ciò che c’è dentro, dei nostri pensieri, di come si manifestano (erotismo, nella sua etimologia, afferisce alla manifestazione del desiderio, in questo caso del desiderio di vedere noi stessi).

Il mio corpo è la Città del Sole, non ha luogo, ma è da lui che nascono e si irradiano tutti i luoghi possibili, reali e utopici. (da un discorso radiofonico di Michel Foucault, 1967).

Prec.

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Comments 3

  1. basketball bros unblocked says:
    2 mesi fa

    Mi sembra una riflessione molto profonda su un tema tanto semplice quanto complesso: il nostro rapporto con noi stessi riflesso. Leggere queste testimonianze mi ha fatto capire quanto sia difficile definire chi siamo tra limmagine oggettiva e quella soggettiva che lo specchio (o la fotografia) ci mostra. Cè una tensione affascinante tra lattrazione per la nostra外形 e la consapevolezza che quella visione è sempre uninterpretazione, unidea che abbiamo di noi stessi, influenzata da tutto: dai pregiudizi sociali, dallosservazione altrui, persino dallatto fotografico stesso, che è sempre unelaborazione. Mi ha colpito in particolare come alcune persone usino lo specchio non solo per ammirarsi, ma per interrogarsi, per una sorta di autoanalisi silenziosa. Sembra che guardare il nostro riflesso sia davvero un modo per navigare le nostre contraddizioni, per cercare un punto di contatto con il vero noi, al di là di come appariamo.

    Rispondi
  2. đồng hồ đếm ngược online says:
    2 mesi fa

    È un po come cercare di capire il proprio specchio usando… un altro specchio. Questa ricerca sul vero io davanti allo specchio sembra più complessa di trovare le chiavi della macchina in un casino. Certo, ci sono chi lo usano come lavagna per domande, chi come miroir per riflettere (metaforicamente, sintende), e chi semplicemente per non riconoscersi più, specialmente dopo la maternità o i 40 anni. Io personalmente preferisco guardare lo specchio mentre mangio la colazione, forse è un modo per valutare il pasto e me stesso nello stesso tempo, un double bonus. Lidea che lo specchio non rifletta la realtà, ma solo unidea che abbiamo di noi stessi, è un classico: quasi come dire che il caffè non è caldo, ma solo la nostra percezione lo fa sembrare così. Comunque, se devo scegliere, prevarrà sempre lo specchio del bar per valutare la速食 pasticceria passata.đồng hồ bấm giờ đếm ngược

    Rispondi
  3. đếm ngược thời gian says:
    1 mese fa

    È un po come cercare la verità in uno specchio che probabilmente non lha mai vista. Sembra unidea furba, ma poi ti accorgi che tutti, o quasi, la usano per fare unautopsia estetica con sé stessi. Siamo tutti un po come questi intervistati: o ci ammiriamo le unghie, o ci auto-analizziamo come se fossimo degli scienziati del sé. E poi ci sono quelli che lo specchio è una roba proibita, tipo D che lo vede più come un nemico che un amico. Comica, vero? Che sia vero o falso, lo specchio ci guarda, e a volte ci sembra che stia sussurrando segreti che non ci dicono molto di più di quanto ci dica la nostra prossima colazione. In fondo, forse dobbiamo solo guardare un po meno e ridere di più.đếm ngược

    Rispondi

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