Avevo già letto l’anno scorso uno dei romanzi di Irene Solà, giovane autrice spagnola classe Novanta: parlo di Ti ho dato gli occhi e hai guardato le tenebre, edito Mondadori (2024). Avevo molto amato il testo, mi era parso ancestrale, un po’ disturbante, impregnato di sensualità. Questa nuova opera, invece, si discosta parecchio da quelle precedenti: l’autrice qui lascia perdere la rudezza e sceglie la delicatezza, non nei temi, ma nello stile.
La storia segue Ada, una giovane che, dopo essere stata tre anni a Londra, torna nel suo paesino natale e comincia a inventare storie per riuscire a capire il mondo che la circonda. Difatti, L’argine non è un vero e proprio romanzo, ma una specie di raccolta di brevi racconti consequenziali, a volte concentrati sulla narrazione di Ada, altre sulla caratterizzazione dei personaggi secondari (che sono parecchi).
Se dovessi spiegare di cosa parla il libro andrei in difficoltà: non è un canonico romanzo lineare con trama che va da punto A a punto B; e non c’è nemmeno una vera storia, ma tanti frammenti di storie, come un sogno, come se Ada stesse scrivendo (e lo sta davvero facendo, in effetti), cancellando errori, ripensando alle frasi da dire, connotando i suoi personaggi sulla base di ricordi o desideri.
Uno dei pregi del testo è la capacità di richiamare racconti, leggende, favolette che si tramandano di generazione in generazione, narrazioni orali e mondi vicini, intimi. Colpisce la abilità di Solà di evocare immagini e di esprimere il lirismo anche nel quotidiano, in gesti semplici come un incidente in motorino, la cattura di un insetto, un momento d’amore in auto, la costruzione di una famiglia, un tradimento.
E nel frattempo, a casa di Ada, monsieur Nick canta: «In ogni angolo del mondo, sono stato dappertutto, e da nessuna parte ho trovato amore da condividere, lai-lai-lai-lai-lai-lai, amore da condividere».
E Ada immagina Jessica S.
Questa è Jessica S. che di tanto in tanto ascolta Nick Garrie.
Alcune notti non riesce a dormire, e questa è una di quelle.
Questa è Jessica S. che mette i dischi di Nick Garrie quando ha voglia di sentirsi un po’ malinconica.
Quando sono tre giorni che il sole non esce nel suo angolino verde e grigio dell’Inghilterra rurale. Quando ha voglia di ricordare i giorni a Langley Manor. Le sigarette dietro la palestra. La vodka a buon prezzo. La felicità perché sì. Mettere e rimettere i CD di monsieur Nick nel corso degli anni. Quando ne ha sedici, diciassette, e dopo quando ne ha venti, e ventitré, e venticinque, e ventisette. Quando si sente di un vetro abbastanza spesso da contenere i ricordi e, nel peggiore dei casi, le lacrime.
Questa è Jessica S. (pag. 28)
Come si evince dal passaggio qui riportato, una trovata stilistica e strutturale molto curiosa, reiterata in tutto il testo dalla prima pagina all’ultima, è l’uso di “questo” o “questa” per introdurre le scene e portarle avanti. L’autrice adotta l’espediente come caratterizzante, tant’è che apre così quasi ogni paragrafo. Ovviamente ne consegue un uso massiccio di paratassi e il testo diventa una sorta di telegramma più che di racconto. L’ho trovato interessante, o quantomeno originale.
Questa è dunque la storia di Ada e la storia delle storie di Ada. È un romanzo costruito come una sequenza di racconti. Un libro fatto della somma di piccole narrazioni che compongono il mosaico di un universo intimo e condiviso.
Questi sono gli attacchi di rabbia. Come anasini al gusto di menta e liquirizia. Sgradevoli. Rotondi e amari e duri e bianchi e brillanti. Che ti lasciano la lingua ruvida e densa, e la gola acre.
Questa è Nàdia, prima, che brandisce un plico di fogli e dice:
«Ada, cos’è questo?».
Ada risponde:
«Ma che fai, ti metti a leggere le mie cose?»
«Ada, cos’è questo?»
«È un racconto».
«Un racconto su di me» dice Nàdia.
«Non dovresti leggere le mie cose».
«È un racconto su di me. Ed era sul tavolo della cucina».
«Lo stavo correggendo».
«Voglio che cancelli questo testo» dice Nadia.
«Perché? È una storia molto bella!» esclama Ada.
Nàdia strabuzza gli occhi, come se le facessero male sotto le palpebre. Come quando erano piccole, se Nadia si arrabbia non sembra più una madre.
Ada chiede:
«Perché c’entra Ivan?»
«No! Perché c’entro IO. NOI! Perché non ti ho dato il permesso di scriverlo. Perché non voglio che tu lo scriva. Voglio che questa storia continui a essere mia, e voglio che rimanga come è successa per davvero e non come l’hai descritta tu». (pagg. 135-6)
Nonostante i pregi del testo, dei tre libri che ha scritto Irene Solà questo è il meno riuscito. Dopo una cinquantina di pagine ci si stanca, ci si domanda dove voglia andare a parare e ci si chiede qual è il punto della storia. Evidentemente, come ho detto in precedenza, non c’è una vera storia, però si ha l’impressione di perdersi in un labirinto senza uscita. Dopo un po’ di tempo passato a leggere, ci si rende conto che l’uscita non è stata proprio prevista nel progetto.
Trovo sia usuale e un fenomeno da indagare questo di costruire storie che non hanno una vera trama. La domanda è: si tratta di una nuova corrente letteraria o è solo stile personale? Perché avverto una specie di “moda”, se così posso dire, nel preferire la prima al secondo. Un conto è se l’autore o l’autrice ha quel linguaggio, quegli strumenti – e in quel caso è appunto “stile” –, un altro è tracciare un flusso di pensieri che non ha né capo né coda e venderlo come “voce autoriale” perché fa comodo, in termini di letterarietà e in termini di marketing.
Devo dire, sono rimasta un po’ delusa. Si fa davvero fatica a entrare nel testo, che rimane molto superficiale, spoglio, disconnesso. Mi è parso di leggere un giornale, una cronaca un po’ sterile di fatti slegati messi insieme. Sarò dura, ma il libro non racconta assolutamente niente.
Se non avessi appurato il talento dell’autrice con i suoi primi due lavori, l’avrei archiviata definitivamente e sarebbe stato un peccato. Ho preferito di gran lunga il romanzo precedente nonché il suo esordio Io canto e la montagna balla, edito da Blackie (2020).






