Attualmente nelle sale italiane, Challengers è l’ultima fatica del regista palermitano Luca Guadagnino, che in tanti attendevano con fervore già dal primo teaser trailer. Vuoi il ruolo di Zendaya come accattivante protagonista, vuoi la palese allusione a un triangolo amoroso, fatto sta che il film, al cinema dal 24 aprile, ha già riscosso un notevole successo di pubblico e critica.
Tashi Duncan, giovane promessa del tennis, ha tutto dalla sua parte: talento, fascino, grinta, carisma. Lo sanno benissimo Patrick Zweig e Art Donaldson, fra loro amici di infanzia, vincitori del titolo di doppio junior per ragazzi all’US Open e profondamente ammaliati da Tashi. Anche dopo che quest’ultima subisce un grave infortunio al ginocchio che le impedisce di portare avanti la sua carriera. Sebbene Tashi debba abbandonare il campo, resta nel mondo del tennis come allenatrice di Art, fino al fatidico giorno del Challenger Tour, dove il destino riporterà tutti e tre una di fronte agli altri, a fare i conti con un passato piuttosto turbolento.
Se dalle prime impressioni – ma soprattutto da un furbissimo e non certo casuale gioco di trailer – il film può sembrare la piccante messa in scena di un rapporto a tre, si comprende molto bene, in seguito, la direzione tutt’altro scontata che Challengers sceglie di prendere. La storia è quella di tre personaggi, ognuno diverso dall’altro eppure legati tra loro da relazioni profonde e contraddittorie, di amore, di amicizia, di stima professionale. Dopotutto, Guadagnino non è forse un regista di relazioni?
I suoi sono tutti film sull’amore inteso in senso ampio e sulle sue infinite sfumature di tono. Un amore non stucchevole, carico di umanità e onestà. Ce lo ha insegnato fin da uno dei suoi primi lungometraggi, Melissa P. (2005), terribile sotto vari punti di vista ma comunque importante per comprendere l’evoluzione della sua carriera. Ci siamo poi fatti trascinare dalla brezza estiva di Chiamami col tuo nome (2017), dove l’amore omosessuale è trattato con inusuale disinvoltura e il fulcro del discorso è l’amore stesso, non tra chi (ah, non dimentichiamoci il primato di aver lanciato un giovanissimo Timothée Chalamet, oggi tassa imposta di qualsiasi film hollywoodiano). Persino Suspiria (2018), riadattamento dell’omonimo cult del 1977 di Dario Argento, mette al primo posto, in un certo senso, le relazioni umane. Meno enfasi per Bones and All (2022), stravagante road movie romantico non ai livelli dei precedenti citati.
Dunque amore, romanticismo, passione, amicizia, tormento, paranoia, rancore. Sono questi i sentimenti che fuoriescono nella trama di Challengers, un film in cui il tennis è incredibilmente centrale pur non essendo affatto un film sul tennis. Vogliamo solo vedere un buon gioco è forse la battuta che meglio riassume il concetto intrinseco della storia.
A padroneggiare è senza dubbio la profonda chimica tra i protagonisti. Inutile dire che il merito va a un trio di interpreti scelto a puntino: dopo il successo della fragile e tossicodipendente Rue in Euphoria, Zendaya è risultata inarrestabile, confermando la sua immensa bravura come performer a tutto tondo (pare abbia effettivamente preso lezioni di tennis e si nota). Che dire di Josh O’Connor, giovane principe Carlo nella serie tv Netflix The Crown e qualche anno dopo protagonista de La chimera, splendida pellicola del 2023 diretta da Alice Rohrwacher. Mike Faist, classe 1992, lo abbiamo invece notato nel ruolo di Riff in West Side Story (2021), regia di Steven Spielberg, per il quale ha anche ricevuto una candidatura ai BAFTA come miglior attore non protagonista.
Se c’è qualcosa che potrebbe destabilizzare lo spettatore, magari, è il tempo. Da un punto di vista narrativo, il film è articolato su tre diverse linee temporali, presente, passato prossimo e passato remoto, che si alternano per l’intera durata. Non sempre, però, sono scandite in modo immediato e si rischia spesso di confondersi tra passato prossimo e remoto, in un intreccio che sta a noi snodare passo dopo passo, anzi, battuta dopo battuta. Per comprendere infine cosa sia davvero successo in circa tredici anni di vita ai tre personaggi.
Dettagli a parte, Guadagnino matura specialmente da un punto di vista tecnico. Si nota, difatti, come abbia letteralmente giocato con la macchina da presa, con il montaggio e le inquadrature. Abbiamo virtuosismi non fini a se stessi, piani sequenza dal ritmo frenetico, che rimbalzano da un personaggio all’altro come palline da tennis, che seguono la soggettiva della pallina stessa quasi a catapultarci dentro lo schermo, fino in campo. Una regia dinamica e travolgente soprattutto durante le partite, accompagnata dalle straordinarie musiche di Trent Reznor e Atticus Ross pronte a svanire curiosamente nei momenti di azione e tensione.
Per tutti quelli carichi di aspettative o per chi l’ha etichettato come filmetto da serata stuzzicante: non è The Dreamers di Bertolucci, sappiatelo. È qualcosa di diverso, qualcosa di profondamente più complicato e coinvolgente dall’inizio alla fine, dove in campo c’è un unico gioco, quello delle relazioni, e ognuno dei tre personaggi, con o senza racchetta, fa il suo.