Giacomo Sferlazzo, musicista e attivista di Lampedusa, dal 2009 è impegnato, insieme al collettivo Askavusa, in un lavoro intenso di denuncia delle cause e delle conseguenze dei fenomeni migratori che attraversano il Mediterraneo. L’abbiamo intervistato.
Giacomo, il collettivo Askavusa ha raccolto centinaia di oggetti, recuperati dalla vecchia discarica di Lampedusa, appartenuti a persone migranti. Alcuni di questi sono esposti a Porto M, un posto di arte, condivisione e riflessione dell’isola. Cosa raccontano quegli oggetti a chi vuole e sa ascoltarli?
«A partire dal 2009 fino al 2018, con il collettivo Askavusa abbiamo recuperato centinaia di oggetti appartenuti a persone di passaggio a Lampedusa. Questi oggetti erano all’interno delle barche che, dopo essere state sequestrate dai vari corpi dello Stato, Guardia di Finanza, Guardia Costiera eccetera, sono state distrutte e triturate con tutto quello che vi era dentro. Lo Stato ha impiegato risorse economiche importanti per far ciò. Alcuni di questi oggetti oggi sono esposti a Porto M. Quando abbiamo iniziato, eravamo spinti dall’urgenza di conservarli. Poi man mano ci siamo chiesti cosa farne e dove mostrarli, ma non abbiamo voluto apporre descrizioni o didascalie per non aggiungere troppo. È stata una scelta.
Il contatto con quegli oggetti è un momento che può assumere tante valenze, anche quella spirituale. Poi c’è il discorso politico. A Porto M abbiamo messo due pannelli con una sintesi delle nostre riflessioni. Molte volte chi viene a trovarci ha un confronto con noi che cerchiamo di mettere in luce le questioni storiche e politiche legate alle migrazioni. Cerchiamo di ragionare sui motivi che spingono le persone a partire. In questo modo si aprono tante porte, dalla dimensione storica del colonialismo fino ad arrivare alle guerre, alla ricerca del lavoro. Un’altra domanda è perché non possono viaggiare in modo regolare. E allora si va a rintracciare la legislatura dell’Unione Europea, gli interessi a livello mondiale con la liberalizzazione del commercio quindi la globalizzazione e, dalla metà degli anni Ottanta, le migrazioni che assumono la forma attuale.
Ci sono centinaia di migliaia di persone costrette a viaggiare in maniera irregolare perché si sono ridotti i canali degli ingressi regolari, i centri per migranti, le frontiere militarizzate su cui grandi multinazionali, produttori di armi e sistemi di controllo hanno dei luoghi privilegiati per vendere la propria merce. Sono tanti i lavoratori sfruttati, nelle campagne e nelle industrie, perché senza documenti. Quello che noi vorremmo è che gli oggetti suscitassero una riflessione su questi argomenti e anche una più intima proveniente dal contatto con loro».
I flussi migratori, come tutte le vicende atroci, sono fatti da tante piccole storie trascurate con crudeltà e culminate in una Storia dell’orrore sempre e solo verso i popoli più deboli. Studiare questi racconti dimenticati potrebbe aiutare a cambiare le sorti della Storia dell’orrore?
«Non è solo una questione di popoli. È una questione di classi sociali. All’interno degli stessi popoli ci sono ovviamente classi che vivono in maniera più agiata e altre masse che vivono in condizioni economiche disagiate. Da quel punto di vista è una questione di classi. Studiare può sicuramente aiutare, però per una risposta di tipo politico bisogna fare uno studio più largo e scientifico. Questo non vuol dire che tutta la sfera umanistica o spirituale debba essere esclusa, assolutamente no, però a volte chi va esclusivamente in quella direzione si perde nei particolari e tende a dare una risposta individuale. Invece qui c’è bisogno di una risposta di tipo collettivo, di tipo politico. Che deve assolutamente contenere anche l’anima dell’uomo e del mondo, questo è chiaro, altrimenti diventa qualcosa di freddo e non ha senso. Intanto, sono necessarie una risposta e una rielaborazione collettive che sappiano guardare alla storia e alle grandi cause che muovono le cose, senza perdere di vista le storie dei singoli».
Quali credi potrebbero essere le soluzioni da adottare per risolvere o almeno migliorare questa questione?
«Bisogna cambiare sicuramente l’approccio con i Paesi di provenienza dei migranti. In questo senso, personalmente credo che quello che si profila nel mondo multipolare che sta provando a costruire il gruppo BRICS con rapporti paritari tra gli Stati negli scambi commerciali, nelle questioni culturali, economiche e anche militari possa essere una via da seguire rispetto alla politica estera. C’è bisogno di nuovi accordi dal punto di vista internazionale che poi devono essere rispettati. Ma servono un altro assetto del mondo, rapporti diversi fra i governi e fra gli Stati da un punto di vista politico e di relazioni internazionali. La prima cosa, quindi, è agire sulle cause che spingono le persone a lasciare i propri Paesi. Fare in modo che gli Stati possano svilupparsi seguendo dei percorsi specifici perché ogni cultura, ogni popolo, ogni nazione ha delle caratteristiche specifiche che non vanno sacrificate in onore del mercato o della globalizzazione, come è stato fatto. Anzi, credo che bisogna partire dalle specificità delle comunità e dei territori.
In tal senso un assetto nuovo di tipo economico e politico dovrebbe prendere in considerazione principalmente questo. L’Occidente ha messo al primo posto il denaro e, invece, va recuperata tutta un’altra serie di valori che sono stati sacrificati in virtù del profitto. Così come va recuperata tutta una serie di valori che sono in mano alle multinazionali e che sono invece fondamentali per la vita dell’uomo e per uno sviluppo armonioso. Parlo dell’agricoltura, della pesca, dell’artigianato, del mondo della cultura. Vanno assolutamente riportati a una dimensione più umana e meno produttiva. Va rivisto il rapporto con la natura. Noi siamo il mondo, noi siamo l’universo e viceversa. Il capitalismo tende a separare l’individuo dal suo ambiente e invece penso che si dovrebbe tornare a una concezione dell’uomo non come parte dell’universo ma come esso stesso universo. E questa è una questione culturale».
E la questione dei viaggi?
«Se non si creano canali d’ingresso regolari chiaramente aumentano la clandestinità, i morti in mare, lo sfruttamento, quindi va assolutamente fatto un lavoro sul piano internazionale per creare canali d’ingresso regolari e garantire condizioni di viaggio dignitose e senza rischiare la vita. Le persone pagano comunque, quindi pagherebbero di meno, non rischierebbero la vita e avrebbero un documento. L’Unione Europea dovrebbe pensare a un visto valido sei mesi per cercare lavoro. Una volta che lo si trova, ci si può stabilire ma, nell’attesa, non si può restare clandestini sfruttati come schiavi. Scaduti questi sei mesi, se non si è trovato lavoro, si torna indietro e poi magari si può tornare. Per quanto riguarda l’asilo politico, invece, si dovrebbe garantire in Europa, quindi cancellare gli Accordi di Dublino, dando modo a chi vuole vivere in un Paese membro di poterlo fare. Ora invece è vincolato al primo Paese d’ingresso ed è assurdo. Poi c’è chi in Libia ha già fatto richiesta di asilo politico e vive in campi di detenzione. Quelle persone bisogna andare a prenderle con dei voli di linea.
La Libia è un Paese in cui non si va a votare da anni perché la NATO non lo vuole, non lo permette. È stata smembrata, lasciata nelle mani di bande di criminali appoggiate dall’ONU e dalla NATO perché la Libia si doveva dividere e smembrare in zone di interesse proprio come in tutti i processi coloniali. E ci ricolleghiamo al discorso di prima. Chi ha l’asilo politico deve essere andato a prendere con voli di linea. Chi viene per cercare lavoro deve poter viaggiare in modo regolare e senza rischiare la vita».
Dall’inizio dell’anno, 1300 persone sono morte nel Mediterraneo. I colpevoli pagheranno mai per il sangue che bagna le coste ogni giorno?
«Prima bisogna capire i colpevoli chi sono perché ci sono. Io temo che non pagheranno o comunque, se pagheranno, non lo faranno in maniera veloce. Ma c’è anche un altro tipo di equilibrio e di giustizia che non è quello dell’uomo, insomma. C’è, nell’universo, una forma di giustizia non intesa come la intendiamo noi. Magari non la riusciamo a cogliere per bene, ma so che tutto ha un suo equilibrio. La giustizia dell’uomo, invece, è sempre molto relativa. Non lo so come, se pagheranno, e quale sia il prezzo giusto da pagare. Ma tutto ha un suo equilibrio».
Perché nessuno spinge per consentire ai migranti la regolarizzazione e la dignità dei viaggi?
«Perché chi ha oggi il potere ne trae maggior profitto in termini economici e politici. E perché non c’è una coscienza così sviluppata rispetto a questo argomento perché purtroppo la discussione sulle migrazioni si è polarizzata su questioni di tipo esclusivamente sentimentali. Nel trovare una soluzione, la questione emotiva non aiuta tanto. Perché poi alla fine ci si divide in buoni e cattivi, fra accoglienza e salvataggi in mare. Ma il punto che ritengo centrale viene saltato o perché si pensa solo all’attualità e non in prospettiva – ma in questo modo sono trent’anni che siamo messi così – o perché si incentra il discorso sull’accoglienza. Questo atteggiamento purtroppo non ha portato a migliorare la situazione. È speculare all’altro tipo di atteggiamento, quello razzista.
Se la questione dei canali d’ingresso regolari e delle cause che spingono i migranti a partire rimane sommersa è perché da un lato chi tiene le fila ha interesse a lasciarla così. E poi chi dovrebbe stimolare il dibattito pubblico non l’ha mai preso come un punto centrale. Magari pensano sarebbe opportuno ma non accadrà mai. Così come le armi. Un Paese che vuole combattere le migrazioni e ridurre le morti in mare ma finanzia le armi è un controsenso. Però, ti dicono che le armi sono un comparto importante dell’economia. Allora c’è qualcosa che non funziona, le migrazioni rimarranno così come le conosciamo molto a lungo. Perché gli interessi economici e politici fanno sì che la cosa non si risolva. Perché non si risolve né con l’accoglienza né con i salvataggi in mare di forze dell’ordine e ONG».
Se potessi dire qualcosa alle persone che hanno perso la vita nel Mediterraneo, cosa diresti?
«Questo è un argomento molto delicato perché noi non sappiamo cos’è la morte. Io fondamentalmente credo che le anime siano immortali. La morte fisica è un altro conto e per la dimensione in cui ci troviamo, chiaramente essendo noi poco evoluti e poco coscienti, la vediamo come qualcosa di assolutamente tragico e in parte lo è. Ma, in realtà, non sappiamo esattamente né cos’è la morte né cos’è la vita. Magari queste anime si sono liberate. Quando parliamo di morte e di vita è molto più complicato di quello che pensiamo. Io credo che noi siamo eterni, che le anime noi muoiano mai. Ma questo non posso garantirlo. Non so cosa direi a queste persone, dovrei incontrarle, prima. Più che altro a chi sopravvive: penso alle madri, ai parenti di chi ha subito traumi così forti, a chi ha perso i propri cari in queste circostanze, quello che proverei a dire se ne avessi la possibilità, con molta delicatezza, è che in realtà noi non moriamo. Noi siamo eterni».