Il terribile episodio di violenza che si è consumato tra le mura dell’ospedale di Foggia rappresenta un altro tassello di decadenza umana, culturale e sociale. Dopo il decesso di una ragazza di 23 anni in sala operatoria, il personale sanitario del reparto di chirurgia toracica è diventato bersaglio di una vera e propria rappresaglia da parte di familiari e amici della vittima. Persone che hanno trasformato il loro dolore in violenza. Gli operatori sanitari hanno dovuto barricarsi in una stanza per non incorrere nel linciaggio che li ha travolti, ferendone gravemente alcuni. Vediamo il loro sangue gocciolante sui pavimenti delle corsie, ma come quantifichiamo le ferite invisibili che restano nell’anima?
La sensazione di essere bersaglio provoca un rilascio di adrenalina nel corpo che fa scontrare il naturale impulso di fuggire con il dovere morale di restare sul luogo di lavoro. Luogo dove peraltro svolgi una professione di aiuto. La concentrazione deve essere focalizzata sulle azioni necessarie a evitare l’escalation della violenza. Descrivo queste sensazioni per esperienza personale: dopotutto, chi non è stato mai vittima di aggressione in una corsia ospedaliera? Nel mio caso è stata verbale, ma basta un qualcosa di impercettibile per innescare tutti quei meccanismi che portano a quella fisica.
Siamo ormai abituati a trovarci di fronte a una realtà di insofferenza dell’utenza che si trasforma, spesso, in violenza. Nel caso di Foggia, quando cinquanta persone ti si riversano addosso, non risulta nemmeno lontanamente possibile mettere in pratica tutte le “tecniche di sopravvivenza” che quotidianamente attuiamo per “resistere”. Barricarsi in una stanza diventa l’unica soluzione possibile. Vi sembra normale?
Impressionante leggere, sui social, i molti commenti in difesa della guerriglia che familiari e parenti della povera ragazza deceduta hanno messo in moto. Ce l’hanno ammazzata, in ospedale abbiamo fatto Gomorra, sono le parole della sorella della vittima. Se la situazione clinica di quella ragazza poteva essere gestita altrimenti? Non è compito di questo articolo stabilirlo poiché ci manca ogni elemento per poterlo fare, così come le parole della sorella della vittima che grida alla malasanità rappresentano soltanto la voce, al momento priva di lucidità, di un aggressore.
Se da una parte il paternalismo medico non è corretto e, a oggi, ampiamente superato, vedere persone senza competenze cliniche che si ergono a giudici tecnici e morali nei confronti dell’operato del personale sanitario è inaccettabile e svilente. L’atteggiamento di diffidenza è dilagante e questa attitudine è stata alimentata da vere e proprie campagne di odio perpetrate negli anni della pandemia da tutto quel mondo antiscientifico appoggiato, sordidamente, da stampa e politica.
Da una parte il complottismo aumenta il sentimento di rabbia dei cittadini, dall’altra le gravi carenze strutturali del SSN, dovute all’insufficiente finanziamento della sanità pubblica, creano disservizi che vanno ad alimentare il tutto. Noi operatori in prima linea diventiamo un capro espiatorio con una guancia rivolta verso un’utenza sempre più arrabbiata e l’altra verso una politica immemore di qualsiasi tipo di valorizzazione o promessa. Dalla riqualificazione strutturale del lavoro dell’emergenza e urgenza alla valorizzazione del capitale umano. Insomma, siamo il punchball ideale.
I fatti di Foggia ci mettono davanti a una gestione malsana del lutto sfociata in violenza criminale attraverso una sorta di “regolazione dei conti”, ma il conto con la morte non si salda mettendo fuori gioco il personale sanitario. Anzi, se poi medici e infermieri non vogliono più lavorare negli ospedali pubblici, i cittadini firmano un contratto con malasanità e morte. Colpire un professionista in servizio va a ledere il diritto all’assistenza di altri pazienti bisognosi. Rompere le mani a chi le utilizza come strumento di cura è un crimine contro l’umanità e se gli atti criminali vanno puniti severamente, il fenomeno della violenza contro gli operatori sanitari va eradicato con interventi strutturali.
Disporre di forze armate davanti a ogni ospedale italiano sarebbe logisticamente ed economicamente insostenibile. Che soluzioni abbiamo? Sicuramente uno dei primi punti è quello di aumentare la qualità del lavoro degli operatori attraverso maggiori risorse destinate alla sanità pubblica. Va inoltre implementata la cultura sanitaria aziendale nei confronti della gestione delle aggressioni. Le aziende si dovrebbero costituire parte civile in tutti i casi di violenza.
Che cosa penso di un ipotetico daspo per chi aggredisce il personale sanitario? La proposta del senatore Ignazio Zullo prevedrebbe la sospensione per tre anni della gratuità di accesso alle cure programmate e di elezione per gli aggressori. Personalmente, penso che questa misura, oltre ad andare contro i principi fondanti del SSN, non risolverebbe il problema delle violenze che si consumano, perlopiù, in regime di urgenza e non di elezione. Far pagare la prestazione sarebbe una “punizione”, ma noi operatori sanitari per svolgere al meglio il nostro lavoro abbiamo bisogno di prevenzione a priori più che di punizioni a posteriori.