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Gaza: 18mila morti che non fanno effetto

Mariaconsiglia Flavia Fedele di Mariaconsiglia Flavia Fedele
14 Dicembre 2023
in Il Fatto
Tempo di lettura: 5 minuti
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Se uccidi uno scarafaggio, sei un eroe. Se uccidi una farfalla, sei cattivo. Friedrich Nietzsche diceva che la morale ha standard estetici. Bianchi, occidentali, privilegiati. Sono gli standard del nostro specchio, quelli che ci permettono di sopravvivere all’orrore, al mostro che ci interroga prima di andare a dormire: non lo sentiamo, ci abbandoniamo al sonno profondo. Sono gli standard che ci consentono di agghindare le nostre case confortevoli, di pensare al pranzo di Natale, le luci tutte intorno, un asterisco a raggirare l’algoritmo.

Dallo scorso 7 ottobre, i bombardamenti di Netanyahu hanno causato oltre 18mila morti e più di 49mila feriti tra i palestinesi. Seimila, tra i deceduti, erano infanti. Vittime che si aggiungono ai 1400 israeliani uccisi da Hamas. Quasi due dei 2,4 milioni di abitanti di Gaza sono sfollati. Un milione è fatto di bambini. Senza acqua, senza cibo, senza servizi igienici. Il più illustre, tra questi, troverà spazio nei nostri presepi. Accoglieremo il pastorello, la cometa non sarà un razzo. Un altro standard per chi ci crede.

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Gaza, dice l’ONU, è l’inferno in Terra, il luogo più pericoloso al mondo per un bambino. A Gaza non c’è niente: oltre il 96% delle scorte di acqua è inadeguato per il consumo umano. Secondo Save the Children, i decessi per fame e malattie potrebbero superare quelli causati dalle bombe. All’inizio di dicembre i dati registravano che almeno 7685 minori sotto i cinque anni soffrono un grave deperimento, la forma più letale di malnutrizione infantile. Dall’acuirsi dell’assedio, nove persone su dieci hanno riferito di aver trascorso almeno ventiquattro ore senza mangiare, un quinto lo ha sperimentato per più di dieci giorni soltanto nell’ultimo mese.

A Gaza c’è emergenza umanitaria. A Gaza c’è emergenza climatica. È inverno, fa freddo, le case non esistono più. Dal cielo pioggia e morte, per le strade fango e macerie, le tende che si allagano, il terribile presagio che la stampa americana possa aver ragione: Israele avrebbe iniziato a pompare acqua di mare nella vasta rete di tunnel sotto la città. Lo scrive il Wall Street Journal. Si tratta di un’operazione militare – già sperimentata in quelle zone – che, ufficialmente, mira a distruggere le infrastrutture sotterranee del gruppo di Hamas ma che, più in concreto, attenta le coltivazioni e, peggio, contamina i terreni. L’ONU non conferma ma, dovesse rivelarsi una notizia vera, quel poco che ancora resta da vivere, a Gaza, potrebbe dirsi già morto.

È questa la realtà della Striscia, una corsa costante verso il valico di Rafah, l’unico passaggio via terra attivo tra l’inferno e il purgatorio, al confine con l’Egitto. Ogni giorno, vi arrivano migliaia di civili costretti dall’esercito israeliano a evacuazioni che, spesso, si confermano vere e proprie trappole. Andate via o morirete, poi magari sparano loro durante la fuga. Persino Philippe Lazzarini, il capo dell’agenzia ONU per i rifugiati palestinesi (UNRWA), ha scritto sulle pagine del  Los Angeles Times che siamo dinanzi a una seconda al-Nakba, la catastrofe, l’espressione con cui i palestinesi ricordano, il 15 maggio, la nascita dello Stato di Israele come data della loro cacciata dalla Palestina. Dal 1948, di padre in figlio, ancora si donano le chiavi di quelle che un tempo furono le loro case. Sta succedendo di nuovo, ricorderanno. Un altro giorno a sancire un ordine del mondo che va così, che deve andare così.

A niente servono le risoluzioni ONU, le sedute straordinarie dell’Assemblea Generale, le votazioni per l’immediato e permanente cessate il fuoco. Sono gesti politici ma non hanno alcunché di vincolante, soprattutto se poi con Israele si intrattengono numerosi rapporti di tipo economico e militare. Soprattutto se poi, come hanno fatto gli Stati Uniti – e chi sennò –, si pone il veto a qualsiasi risoluzione di tipo pacifista. In quel caso, il Consiglio di Sicurezza avrebbe potuto fermare il genocidio (ne ha il potere) e, invece, la missione non è ancora compiuta. I signori della guerra guidati da Joe Biden non sono d’accordo, l’Italia e la Germania a fare da cagnolini. Perché astenersi questo è: prendere posizione senza prenderla ufficialmente.

António Guterres, segretario generale delle Nazioni Unite, afferma che senza una pausa dei combattimenti nella Striscia di Gaza si assisterà a «un collasso dell’intero sistema umanitario». Un rischio che potremmo dire ampiamente superato quando i medici sono costretti a operare per strada senza anestesia, quando si muore di stenti, di malattie, di bombe. Quando l’unica centrale elettrica si è spenta e gli ospedali hanno esaurito i posti letto. A Gaza si parla di pericolo colera, ogni giorno si accumulano 400mila chili di rifiuti nei campi. Che cosa stiamo aspettando? Qual è lo standard che ci impedisce di identificarci con tutto ciò, di fermare le strade, le città, le nazioni intere per chiedere la pace? Che senso ha manifestare uno, due, tre volte al mese per poi tornare alle nostre vite? Chi decide cosa?

Da sempre, da ben prima del 7 ottobre, Israele fa questo alla Palestina e ai palestinesi. Fa questo ogni giorno, torturando, umiliando, depredando, arrestando uomini, donne, spesso poco più che ragazzini affinché non resti più nulla di loro. Hamas, la sua barbarie, la violenza di un attacco inedito – ma non imprevedibile: come dimostrano i documenti, Netanyahu e i suoi sapevano – fa comodo a Israele e lo fa anche a politica, informazione e istituzioni che possono così giustificare l’inaudito. È un alleato troppo importante Tel Aviv per inimicarselo. Non lo vuole nessuno. Nessuno che non abbia a cuore un popolo che, invece, non esisterà più.

Quanto siamo complici, tutti e per davvero. Perché basterebbe volersi informare, voler vedere, voler interrogare. Invece, anche dinanzi all’evidenza, ci voltiamo dall’altra parte sperando sempre che non sia la nostra. Che non siano i nostri standard, quelli che imponiamo sulla pelle degli altri, uomini denudati, con le mani legate dietro la schiena, bendati, in ginocchio sul duro asfalto o nella fredda terra. Le immagini circolano persino sui media locali che si oppongono al regime di Netanyahu. Non si vedono in Italia, però, non si vedono in Occidente, in prima pagina sui giornali o ad aprire i tg come notizia più importante del giorno ogni giorno.

Sono gli uomini palestinesi che i soldati israeliani schiacciano, prendono a calci, deridono, violentano anche verbalmente. Non ci somigliano, hanno standard diversi. Gli standard estetici di Nietzsche. La sua storia circolare. Torna e ritorna, sempre allo stesso punto: Auschwitz o Gaza, il criterio non cambia. È l’odio, forse, del troppo umano. Non è ripugnante, non è bestiale, non è inconcepibile. Ci appartiene, ci appartiene eccome, è la luminaria nonostante tutto accesa. È lo scarafaggio, ma anche la farfalla, la mattanza che ci sta bene. Basta un asterico, raggiriamo l’algoritmo. E poi? Buon Natale.

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