Indi Gregory aveva otto mesi e una malattia incurabile. Ho iniziato questo articolo scrivendo di lei al presente, poi ho dovuto cambiare i tempi verbali perché, di tempo, quello scandito dal passare delle stagioni, il vestito che si fa corto, un segno indelebile sullo stipite della porta, Indi non ne ha più. La scorsa notte, ore 1:45 circa, il suo cuore ha smesso di battere. Indi è morta e adesso, finalmente, possiamo lasciarla andare.
Negli ultimi giorni il suo nome, il suo volto, la sua storia sono stati una costante delle cronache italiane, forse meno di quelle inglesi, in una battaglia legale e – più di tutto – politica tra Regno Unito e Italia che non ha aiutato nessuno, se non i soliti sciacalli.
Nella giornata di sabato, i medici del Queen’s Medical Centre di Nottingham hanno effettuato il distacco dei principali dispositivi che tenevano in vita la bambina. Nata lo scorso febbraio, infatti, Indi era affetta da una rarissima patologia mitocondriale senza cura che l’aveva tenuta intubata, in ospedale, sin dal primo vagito, motivo per cui i giudici britannici avevano disposto l’interruzione della ventilazione assistita, il conseguente collegamento a strumenti alternativi e la somministrazione di farmaci palliativi al fine di accompagnarla verso una morte dignitosa.
A nulla era valsa l’opposizione dei genitori, Dean e Claire: per Indi, non c’era altra soluzione se non evitare ulteriori sofferenze e un epilogo già scritto, purtroppo ineluttabile. Così, i medici, dopo un lungo rimpallo di tribunali e responsabilità, avevano predisposto quello che è stato l’unico viaggio della bambina, vale a dire il trasferimento dall’ospedale all’hospice, dove è morta, rigettando l’ennesimo ricorso dei genitori che avrebbero voluto procedere con l’estubazione nella loro abitazione nel Derbyshire. Da lì era iniziata l’attesa, lunga, di una famiglia che non ha saputo dirsi addio. E vi prego di leggere queste parole senza giudizio.
La vicenda, lunga settimane, aveva sollevato numerose polemiche, tra etica e scienza, speranza e medicina, legge e autodeterminazione. In particolare tra chi avrebbe voluto fossero i genitori di Indi a scegliere, e quindi a non procedere con l’estubazione, e l’Alta Corte britannica. Una vicenda che era giunta fino in Italia, scomodando persino la Presidente del Consiglio Giorgia Meloni e molti dei suoi fedelissimi. I pro-vita a fatti loro.
A pochi giorni dalla sua scomparsa, infatti, il Bel Paese aveva concesso una cittadinanza lampo alla piccola Indi, chiedendo al Regno Unito di trasferire la bambina a Roma, presso l’ospedale Bambin Gesù. Nemmeno la Premier, tuttavia, era servita a molto contro un’evidenza medica che aveva sottolineato a più riprese che Indi non sarebbe riuscita ad affrontare il viaggio e, quindi, a morire – perché di questo si sarebbe trattato – nella Città Eterna. Polemiche che hanno acuito quella che oggi il papà della bambina chiama vergogna e, in realtà, è soltanto dolore. Il suo, comprensibile, di genitore e il nostro che non abbiamo in qualche modo saputo tutelarlo.
È stata la stessa Corte d’Appello di Londra a definire la tattica legale dei Gregory come frutto di una manipolazione degli attivisti paladini della vita a cui tristemente l’Italia si è prestata addirittura per mano del suo Presidente del Consiglio. Un intervento stigmatizzato dal giudice relatore Peter Jackson che ha parlato di fraintendimento totale dello spirito della Convenzione dell’Aia a cui si era appellata Giorgia Meloni, di fatto tra le principali sostenitrici di una significativa sofferenza causata dai trattamenti invasivi a cui era sottoposta la piccola.
Il corpo di una bambina di otto mesi, dunque, si è fatto oggetto di propaganda internazionale, una battaglia che di politico ha poco ma di opportunistico molto. Ed è qui che inizia il corto circuito, si acuisce il nostro dolore, diventa rabbia. Perché nelle stesse ore in cui ci si batteva per tenere in vita una creatura martoriata sin dalla nascita, destinata a soccombere tra dolori e spasmi, a molti chilometri da Londra, ad altrettanti da Roma, si staccavano altre spine, condannando qualche neonato a morte certa (per ora sono almeno quattro) e qualcun altro a morte probabile.
Erano, sono, i bambini di Gaza, dove l’assenza di elettricità imposta da Israele, le evacuazioni forzate impediscono il ricorso alle incubatrici. Non una malattia, dunque, ma la violenza dell’uomo, l’indifferenza, il genocidio avallato – tra gli altri – dagli stessi Paesi intenti a contendersi Indi, a cui avrebbero dovuto soltanto una fine dignitosa, senza polemiche, strumentalizzazioni, senza spettacolarizzazione del suo viso segnato da tubicini più grandi di lei.
Ma quale dignità avrebbero potuto garantire Italia e Regno Unito, astenutisi al voto per una tregua umanitaria nei palazzi dell’ONU. Quale dignità conosce l’Italia dove il fine vita non è ancora legge, dove Sibilla Barbieri – ultima in ordine cronologico – è stata costretta, come troppi prima di lei, ad andare in Svizzera per non soffrire più. Quale difesa della vita promuove l’Italia che non riconosce la Costituzione, l’articolo 32, il Nessuno può essere obbligato a un determinato trattamento sanitario se non per disposizione di legge. La legge non può in nessun caso violare i limiti imposti dal rispetto della persona umana. E quale rispetto è stato riservato alla signora Barbieri?
Era, Sibilla, una paziente oncologica terminale e, nonostante soddisfacesse tutti i requisiti per i quali si può accedere alla morte volontaria assistita (come da sentenza n.242/19), la sua ASL di pertinenza le ha negato la possibilità di morire nel suo Paese, in Italia, perché – al momento della valutazione della richiesta – la donna non dipendeva da trattamenti di sostegno vitale. Le cose, però, erano presto cambiate, come si può notare nel video di commiato che lei stessa ha registrato prima di lasciare questa terra.
Sibilla, malata da dieci anni, è stata discriminata in vita come in morte. Esclusa, come altri affetti da patologie irreversibili e portatrici di sofferenze intollerabili, non collegati a macchinari di sostegno vitale. Esclusi per una discriminazione inaccettabile e irrazionale, se l’intervento legislativo deve porre fine a un dolore che priva di qualsiasi dignità. Se n’è andata in Svizzera, Sibilla, al costo di 10mila euro e un sogno di libertà. Se n’è andata ringraziando noi che le presteremo ancora la voce, al posto di uno Stato che non ha voluto ascoltarla. Lo stesso Stato che si è battuto, invece, per una bambina di otto mesi condannata a morte nella migliore delle ipotesi, a dolori inimmaginabili nella peggiore.
Da anni, in Italia, si finge di discutere del fine vita attraverso paroloni quali, ad esempio, testamento biologico, suicidio assistito ed eutanasia (attiva o passiva), più difficili alla pronuncia che alla loro reale collocazione nell’intersezione dei due grandi insiemi di riferimento, quelli dei diritti e delle libertà. Mai, però, si è giunti a una soluzione, tantomeno tutela, di chi, in moltissimi casi estremi, ha deciso e decide tutt’oggi di abbandonare lo Stivale per smettere di soffrire.
L’Italia, infatti, rientra nel gruppo di Stati che non riconosce possibilità di morte dignitosa di nessun tipo, a differenza di Regno Unito, Austria, Croazia, Spagna, Ungheria, Belgio, Paesi Bassi, Finlandia, Svizzera, Lussemburgo, Portogallo e Germania, dove risulta vincolante la volontà del paziente, con differenze legali per ogni nazione. A questo elenco appartiene, poi, la Francia dove, però, il testamento biologico è solo uno dei documenti presi in considerazione in fase decisionale. L’Italia che ha strumentalizzato una bambina di otto mesi, il suo corpo, il dolore suo e quello di due genitori, su cui sento di non potermi e volermi esprimere. Perché non ne ho diritto. E non ne aveva questo Paese, la sua più alta rappresentante, la pro-vita a fatti suoi.
Dovremmo vergognarci, ma non succede più.