Beatrice Cristalli è consulente in editoria scolastica, formatrice e linguista. Collabora con varie testate tra le quali Focus Scuola e Treccani.it, per cui cura da anni articoli sull’evoluzione dei linguaggi della contemporaneità. Nel 2018 ha pubblicato la raccolta di poesie Tre di uno con Interno Poesia. Ha creato il progetto illustrativo Beodibeo. Nel 2022, per Rizzoli ha pubblicato Parla bene. Pensa bene. Piccolo dizionario delle identità e Dizionario per boomer. Capire le nuove generazioni, arrivato in libreria lo scorso settembre. L’abbiamo intervistata.
Beatrice, fin dagli esordi è riuscita a esprimersi nei modi più disparati: dalla poesia all’illustrazione alla saggistica, tenendo sempre ben presente il valore della lingua e del linguaggio. Cos’è e cosa richiede per Lei la lingua?
«La lingua per me era un problema da risolvere. La sua mobilità mi ha sempre affascinato. Non intendo solo il suo moto vitale, di cambiamento, ma quello che la rende ambigua, misteriosa, rispetto ai contesti e a ogni persona che la utilizza (che ha così tante esperienze da caricarla di nuovi significati). Io credo che le nostre passioni nascano da rompicapi che ci appassionano (e ci ossessionano) a tal punto da tormentarci tutta la vita. Così com’è stato lo studio per me. A distanza di anni, posso quasi con certezza definirlo il “passaporto” per essere accettata nel mondo».
E il linguaggio?
«Per me è ancora più importante perché è il bagaglio di pensieri e idee che precedono ogni nostra scelta linguistica. Sembrerà un paradosso, ma ho l’impressione che oggi tendiamo a “sovrastimare” le parole. Ci illudiamo che basti una parola per risolvere le cose. Con le parole, addirittura, vogliamo spiegare cose che non hanno senso. Semplicemente non tutto ha un senso. E va bene così. Ce lo insegna la letteratura, ad esempio».
Quanto e come ci si può difendere, se ci si può difendere, dal bene e soprattutto dal male insito nelle parole?
«Ogni parola ha un peso semantico diverso in ogni persona. Certo, esistono parole “brutte” inequivocabili (pensiamo agli insulti, agli epiteti denigratori ecc.), ma a me hanno per esempio fatto più male oggetti meno espliciti. Le parole sono esplicite, sono l’ultima fase di un processo. Il male, se così vogliamo chiamarlo, agisce molto prima. Agisce a un livello implicito, di linguaggio, dove abitano stereotipi, false credenze e molto altro. Tutto quello che c’entra con la nostra identità. Non è roba da poco».
Nel suo ultimo lavoro ha provato a gettare un ponte fra le generazioni, provando a leggere e spiegare il lessico della generazione Z. Per Lei la lingua può unire più di quanto riesca a dividere?
«La lingua dividerà sempre perché la trattiamo come se fosse una persona. Per questo mettiamo in moto emozioni, ricordi ed esperienze. L’italiano percepito è quello che ciascuno vuole credere. Il gergo dei giovani sarà sempre guardato con sospetto dai più adulti, ma parlare lingue diverse è necessario. È come nelle relazioni: mantenere i confini è la chiave. Rispetto reciproco delle identità, e da lì può nascere un vero dialogo. Tutto il resto è una parodia».
John L. Austin, diceva che le parole fanno cose. In questo periodo storico, come pensa si possa ripartire dalle parole per fare cose migliori?
«Penso che dobbiamo essere più onesti e oneste. E di conseguenza le nostre parole saranno più autentiche. Credo sia importante lavorare anche sul vocabolario che ognuno di noi utilizza per parlare con se stesso. Le parole che usiamo per “parlarci” plasmano la nostra identità. E il nostro cervello, alla lunga, ci crede».
In alcuni suoi versi ha scritto: E quanto male fa / Essere davvero coscienti/ Sentirsi veri nei discorsi degli altri. Quanto costa e quanto è necessario cercare coscienza e verità nei discorsi e nelle parole proprie e altrui?
«Costa tantissimo. Ma è l’unica partita che dobbiamo affrontare, secondo me. Diventare pienamente noi stessi è un lavoro a tempo pieno. Molte persone non sono disposti a faticare in questo senso e si nascondono dietro vittimismo e invidia. Ci vuole coraggio a essere se stessi. Perché si sbaglia tanto».
In altri versi ha scritto: La risorsa del dubbio / nelle corde di una briciola / si spezza. Può invece la risorsa del dubbio, che resiste e non si spezza, nutrire pian piano la speranza in una comunicazione più intensa e profonda?
«Sì, il dubbio che non si spezza può davvero nutrire una comunicazione più intensa e profonda. Anzi, direi che è proprio il dubbio che ci tiene vivi, curiosi, aperti. Quando lasciamo spazio al dubbio, ci diamo la possibilità di ascoltare l’altro senza preconcetti, di non chiuderci in risposte pronte e facili, ma di esplorare insieme. È lì che può nascere un dialogo vero, fatto di attenzione reciproca, di tentativi, di intese che si costruiscono un po’ alla volta».