Tra le pagine di Una rivolta. Orizzonti e Confini del Nord-Est di Enrico Prevedello, edito nottetempo, sentiamo l’odore della vita di Luciano Franceschi. Il suo caseificio, la sua bottega, l’odore del caglio e dei formaggi freschi, del pane appena sfornato, l’odore della sua terra.
Luciano Franceschi è il capo dell’autogoverno veneto, movimento che ha come obiettivo principale la costituzione – o meglio la liberazione – della Nazione indipendente del Veneto. Indipendente e non autonoma. Infatti, se in un primo momento le rivendicazioni trovano spazio all’interno della Lega Nord di Bossi, in seconda battuta la prospettiva di secessione e autonomia di quest’ultima non è ritenuta sufficiente, sia perché i veneti non si considerano accomunati agli altri abitanti del Nord sia perché Luciano e il suo gruppo non si sentono parte dell’Italia, da cui quindi doversi separare. L’Italia viene considerata il colonizzatore da cui le terre venete sono state usurpate e da cui bisogna liberarsi.
La vita, gli obiettivi politici, la deriva di Franceschi vengono raccontati da un compagno di scuola e amico di Arturo, il figlio di Luciano, dopo lunghi fatti e ricostruzioni che a vederli così, nero su bianco, ci sembreranno un’invenzione ridicola, un’ossessione irrazionale. Il contesto in cui i personaggi si muovono, però, è fondamentale ed è il fulcro della vicenda: Borgoricco è un piccolo centro veneto, abitato essenzialmente da imprenditori e operai, un luogo che risente inevitabilmente della crisi finanziaria, in particolare nei primi anni 2000. La sua centralità è chiara nell’utilizzo di numerose espressioni dialettali, senza le quali l’autore pensa di non trasmettere adeguatamente il senso delle storie riportate.
Il narratore ricostruisce fin da subito le peculiarità di Borgoricco: lui, unico figlio di operaio tra i suoi amici, avverte la propria esclusione, la mancanza di caratteristiche che accomunano invece tutti gli altri. Gli imprenditori che arrivano al suicidio nel periodo di crisi economica tornano spesso in questo libro, soprattutto nelle vicende finali della vita di Luciano che entra in carcere per aver sparato al direttore della banca di Borgoricco a cui era andato a chiedere, per l’ennesima volta, un finanziamento – poi negato – per risollevare la sua attività, per dimostrare ai figli e alla sua comunità di potercela fare. Che la sua elezione a capo dell’autogoverno veneto non era immeritata, che i suoi progetti non erano irrealistici, che lui non avrebbe ceduto alla disperazione.
Ciò che trapela è una totale mancanza di fiducia verso lo Stato, considerato non solo usurpatore ma disinteressato alle vicende dei veneti. Intanto, noi sappiamo che l’insperata autonomia è diventata realtà e sembra quasi ironico leggere ora le parole di Luciano:
La Lega Nord, in Veneto, compare solo negli stand della tradizionale Fiera del Folpo di Noventa Padovana, e forse nei ricordi di chi vota Zaia (presidente della regione dal 2010), che ogni tanto usa la parola “autonomia”, a partire dal referendum consultivo del 2017 in cui la maggioranza degli aventi diritto veneti dice sì all’autonomia regionale. Alcuni aspettano ancora – non so se mentre leggerete queste righe ci sarà il Veneto autonomo oppure il ponte sullo stretto di Messina, poco importa, intanto io impressa nella mente ho l’immagine di Luciano che sorride e fa lentamente no con la testa: vi hanno preso per il culo con l’autonomia, che è un contentino, c’è una bella differenza con l’indipendenza, dice. Se sei autonomo ti tengono col 50 collare, puoi allontanarti di due metri ma devi obbedire sempre alla stessa mano, quella che ti prende di bocca la selvaggina che gli porti e poi ti nutre con gli avanzi. L’indipendenza e l’autogoverno sono le uniche vie per la libertà.
Nel libro si alternano pagine in cui si raccontano la vita, gli affetti, la famiglia di Luciano – di cui troviamo tra le righe anche qualche fotografia – a pagine più recenti ambientate nelle varie case di reclusione che lo ospitano: sullo sfondo rimane la vicenda che lì lo ha condotto. Il focus si sposta sulla vita in carcere, dove Luciano porta avanti delle precise rivendicazioni che riguardano la vita dei detenuti, scopre che quelle vessazioni e condizioni di vita che lui riconduce al suo status di prigioniero politico – come si definisce – in realtà riguardano tutte le persone recluse e sono parte della natura stessa dell’istituzione carceraria. Il punto di vista della vita in carcere torna anche nelle parole del narratore, che racconta di aver insegnato tra quelle mura, segnalandone tutte le storture.
C’è un elemento che è chiaro in Una rivolta. Orizzonti e Confini del Nord-Est, e che a un certo punto viene anche esplicitato: il mondo in cui credi di vivere è il risultato della condivisione culturale della tua comunità. Le comunità più forti impongono il proprio mondo agli altri. Ci rendiamo conto che il paragone può apparire azzardato, soprattutto alla luce delle più recenti vicende istituzionali e politiche sull’autonomia differenziata che non condividiamo in alcun modo, ma il punto di vista presentato da Luciano è quello di una comunità che si sente esclusa, emarginata, non valorizzata, così come quella delle persone detenute, così come quella delle persone di Borgoricco, come quel bambino che vede nei compagni qualcosa che non avrà mai.
E non ci riferiamo a cose materiali, ma a un senso di appartenenza e partecipazione che è il filo conduttore di tutto il libro. Quando l’autore dice che il bancone della bottega Franceschi era frigorifero e vetrina della comunità di Borgoricco non esagera, perché lì, in quelle persone, si concentrano tutte le aspirazioni della comunità.