Tenuti come siamo a indossare delle maschere in pubblico, quale momento migliore per rituffarci nella serie capolavoro del 2019, quel Watchmen che della riflessione sulla maschera come meccanismo di disvelamento della persona ha fatto uno dei suoi cardini tematici? Nella miniserie prodotta da HBO e disponibile in italiano su Sky Atlantic – creata dal Damon Lindelof sceneggiatore di Lost e Leftovers –, non solo i tutori dell’ordine, per decreto governativo, sono costretti a indossare delle maschere per difendersi da un gruppo terroristico i cui accoliti indossano maschere a loro volta, c’è anche un dio che, come nelle mitologie più classiche, è mascherato e si aggira tra noi mortali.
Ma partiamo dall’inizio: in principio era Watchmen, miniserie a fumetti – non chiamatela graphic novel, è un termine che si usa spocchiosamente per nobilitare un’arte che non ha alcun bisogno di esserlo – creata dal genio di Alan Moore, un vate del settore – autore tra gli altri di V per vendetta e From Hell –, e dal disegnatore Dave Gibbons, pubblicata in 12 fascicoli tra il 1986 e il 1987 poi ristampata in grossi volumi da collezione e diventata oggetto di culto, vero e proprio Sacro Graal della settima arte, capace di traghettare il mondo delle vignette e delle nuvole parlanti nel regno della grande narrativa contemporanea. È stato, infatti, l’unico lavoro a fumetti ad aver ricevuto il Premio Hugo, nel 1992, come miglior opera letteraria, diciassette anni prima che istituissero la categoria apposita dei romanzi grafici, oltre ovviamente a numerosi riconoscimenti nel suo settore.
Rendere conto della complessità e della densità del Watchmen di Moore in poche righe sarebbe impossibile. Ci limitiamo a dire che la saga era un noir fantapolitico, con elementi fantascientifici, ambientato in una realtà alternativa nella quale Nixon era stato eletto Presidente per la quinta volta e l’America aveva vinto la guerra in Vietnam grazie all’intervento del dottor Manhattan, essere non più umano dalla pigmentazione blu, capace di manipolare la materia. Inoltre, percepiva il tempo come un unico eterno momento nel quale tutti gli attimi erano compresenti ed esperibili simultaneamente, annullando di fatto la differenza tra passato, presente e futuro. Si evocava così una concezione del tempo non lineare, vicina alle teorie quantistiche, anticipata dalle intuizioni geniali del matematico polacco Hermann Minkowski.
Soprattutto, Watchmen era una riflessione amara sul supereroe e sul suo ruolo di vigilante all’interno della società. I Watchmen erano un gruppo di giustizieri mascherati senza alcun superpotere che, ispirandosi ai primigeni Minutemen degli anni Quaranta, tra i Sessanta e i Settanta pensò bene di fondare un gruppo di eroi che incarnasse lo spirito americano nella sua accezione migliore. Le cose non andarono per il meglio e i vigilantes che indossavano una qualsiasi maschera furono banditi con una legge apposita. Senza scendere in dettagli – per chi vuole approfondire ce n’è di materiale in rete o, meglio ancora, ne consigliamo la lettura diretta –, basti dire che l’opera di Moore attuò una decostruzione geniale dell’archetipo del supereroe e, tramite i dubbi e le azioni discutibili di alcuni di loro, inserì notevoli dosi di critica sociale e feroce messa in discussione del sistema di valori su cui si fondano gli Stati Uniti d’America.
Nel 2009, Zak Snyder ne trasse una pellicola che, pur fedele dal punto di vista visivo, era più debole da quello della sceneggiatura in quanto non riusciva a rendere la complessità e le sfaccettature di una vicenda che attraversava mezzo secolo di storia americana scoperchiandone brillantemente tutte le contraddizioni in modo avvincente e originale. Arriviamo infine al 2019 e al guanto gettato in faccia da Lindelof a Moore e a tutti i fan del bardo di Northampton – così viene definito affettuosamente il maggiore autore mondiale della settima arte –, osando addirittura dare un seguito a Watchmen e cioè immaginando cosa potesse essere successo nei trentaquattro anni successivi agli eventi accaduti in quel 1985 alternativo già noto.
Cogliendo un input offerto dallo stesso Moore nel finale della sua opera, Lindelof immagina gli Stati Uniti del 2019 governati, da ormai ben quattro mandati, da Robert Redford: sì proprio lui, l’attore più politicamente impegnato e progressista che la storia di Hollywood ricordi. E, infatti, la nazione diventa specchio delle sue idee politiche: per esempio gli agenti di polizia possono utilizzare un’arma soltanto dopo aver ottenuto un’autorizzazione formale, tramite walkie talkie, che ne giustifichi l’uso e che quindi ne sblocchi il vano che le contiene, situato nelle auto di ordinanza. È parossistica e grottesca la scena del primo episodio in cui un agente, in evidente pericolo di vita, riesce a farsi sbloccare l’arma solo dopo un estenuante confronto radio con un collega preposto. La perdita di tempo gli costerà la vita. Una sequenza che mette alla berlina i principi garantisti su cui si basa la nostra democrazia, mostrandoci gli effetti di quando tali principi vengono portati all’eccesso.
Ma l’incipit della serie vero e proprio ci mostra invece un vergognoso episodio, accaduto realmente nel 1921, nel quale una ricca e prosperosa comunità nera dell’Oklahoma fu letteralmente spazzata via dal Ku Klux Klan. Tale episodio sarà determinante per tanti eventi che accadranno in seguito. Nel mondo di Watchmen (la serie) si immagina che siano state istituite le cosiddette Redfordation, ovvero sovvenzioni e sostegni economici alle persone di colore in risarcimento alle persecuzioni subite nel corso di due secoli di soprusi e iniquità razziste. Proprio queste sovvenzioni saranno l’input che scatenerà le azioni sovversive del Settimo Cavalleria, gruppo di suprematisti bianchi mascherati che, guarda caso, mal sopporta i diritti concessi alle persone di colore e considera l’uomo bianco ormai come una minoranza da difendere nell’America degli anni Dieci. Non trovano dunque nulla di meglio che massacrare un buon numero di poliziotti, cogliendoli di sorpresa nelle loro abitazioni con un’azione coordinata nel corso di un’unica nottata che verrà ricordata come la Notte bianca. Per questo motivo, il governatore Keene istituirà l’obbligo di anonimato per le forze dell’ordine, nonché quello di indossare una maschera che ne celi le fattezze. Non secondario il dettaglio che gli affiliati del Settimo Cavalleria indossino tutti la maschera di Rorschach, personaggio iconico del Watchmen originale, giustiziere ultra-reazionario intriso di un codice morale ferreo e inamovibile che, pur di non venir meno ai propri principi, si è fatto uccidere in nome della verità a tutti i costi.
Questa la materia incandescente che costituisce soltanto l’assunto di base della densa e intricata trama che riserva colpi di scena e svolte narrative davvero sorprendenti. A reggere le redini del racconto è Angela Abar, interpretata da una fantastica e carismatica Regina King, poliziotto di colore ovviamente in incognito, che nello svolgimento delle sue funzioni assume la fumettistica identità di Sister night, indagando sul Settimo Cavalleria e su un omicidio eccellente, quello del capo della polizia di Tulsa Judd Crawford, interpretato da un inossidabile Don Johnson, protagonista ormai di una seconda giovinezza dopo la cura Tarantino.
In un arco narrativo parallelo troviamo invece Jeremy Irons in un ruolo bizzarro e sopra le righe, ovvero come padrone di un antico maniero in una splendida tenuta dove viene servito e riverito da un maggiordomo e una cameriera che – spoiler leggero ma non determinante – si rivelano essere cloni perennemente rimpiazzati. Le giornate scorrono tra festeggiamenti di inesistenti compleanni, rituali grotteschi e crudeli messe in scena teatrali nei quali il padrone Irons costringe i sottoposti a rappresentare storie dall’esito cruento ispirate ad alcuni eventi occorsi nel Watchmen originario. Come in un ideale contrappunto kubrickiano, il tutto viene condito da musica classica à gogo. Chi è il personaggio interpretato da Irons e qual è il nesso di questa situazione con tutto il resto e con le indagini di Angela? Starà allo spettatore scoprirlo, ma possiamo garantire che anche questa apparentemente insensata costola narrativa troverà la perfetta collocazione all’interno di quel grande mosaico che è Watchmen (la serie).
Nulla è fuori posto ma ogni evento, episodio sopra le righe, o scena sorprendente e imprevista è parte integrante di un incredibile e oliato meccanismo narrativo che non perde mai un colpo, proprio come gli inossidabili dispositivi meccanici all’interno di quei vecchi orologi che il padre di Jon Osterman – identità umana di dottor Manhattan prima di trasformarsi nel dio blu – tanto adorava aggiustare. Questo è dunque il miracolo operato da Damon Lindelof: vivificare e ampliare l’universo narrativo creato da Alan Moore con intuizioni che, senza snaturarne le caratteristiche, lo portano in direzioni inedite e sorprendenti, pur coerenti allo spirito originario del capolavoro degli anni Ottanta. Lo showrunner ne ha piuttosto attualizzato i temi, aggiornandoli al razzismo strisciante che tutt’oggi divampa in America, alla manipolazione delle masse basata sulla paura e a quel vecchio ma purtroppo ancora attuale sentimento collettivo che sorge nei momenti di crisi e che porta le masse ad affidarsi all’uomo forte di turno.
Sono numerosissime le gustose citazioni e gli Easter eggs – termine mutuato dai videogiochi – che i fan del fumetto originario potranno trovare disseminati lungo tutta la serie, a cominciare dal personaggio di Specchio, poliziotto che indossa una maschera riflettente e che richiama in parte il Rorschach dei tempi andati. Questo non rende certamente meno fruibile la serie a coloro che sono a digiuno di Moore e fumetti ma, anzi, renderà la narrazione ancor più ricca di sorprese rispetto a quanti invece riconosceranno personaggi e situazioni in un certo senso familiari. Ribadiamo però che non si tratta affatto di banale fan-service perché l’operazione di Lindelof è assolutamente genuina e raffinata, avendo distillato lo spirito dissacrante e disincantato che imbeveva l’opera di Moore in un prodotto davvero originale e dall’impatto visivo ed emotivo indimenticabili.
Molta trepidazione si crea attorno al ritorno di uno dei personaggi più iconici, insieme con Rorschach, della serie originale e cioè quel dottor Manhattan di cui si diceva prima, unico dotato di reali superpoteri che lo avvicinano effettivamente alla rilevanza di un dio. Da trent’anni, si trova sulla superficie di Marte a baloccarsi con atomi e problemi filosofici di varia natura, indifferente ai destini della razza umana, in chiaro contrasto con la figura classica del supereroe. Il suo ritorno costituisce una delle rivelazioni più incredibili della serie, cosa che mette in campo uno dei tópoi principali della mitologia greca. Non possiamo dire di più anche se, mettendo insieme alcuni indizi di questa stessa recensione, qualcosa forse si può ricavare.
È intuibile che la vicenda del Settimo Cavalleria e delle indagini relative è solo la punta di un iceberg di un qualcosa di molto più grosso e che diventa terribilmente attuale in un momento come quello che stiamo vivendo nel quale, complice la paura del coronavirus, stiamo delegando tutte le nostre inviolabili e sacrosante libertà personali a enti e personaggi che, al pari di genitori paternalistici, trattano il popolo come bambini e intrappolano le coscienze collettive in narrazioni che ci blandiscono e rassicurano ma che al contempo ci abituano a climi dittatoriali.
La manipolazione delle masse in Watchmen passa anche attraverso l’imposizione delle maschere. Quelle che i poliziotti sono costretti a indossare per svolgere le loro funzioni sono le stesse di cui si serve il Leviatano di hobbesiana memoria per celarsi nei mille volti con cui l’autorità si presenta al cittadino. È noto come, in ambito teatrale e filosofico, la maschera, se da un lato mimetizza le fattezze del viso, dall’altro svela invece la persona che c’è dietro, proprio perché quella maschera sociale che siamo costretti a indossare tutti i giorni crea un’illusione sempre più forte, fino a farci identificare totalmente con essa. Ecco dunque che la maschera mostra le sue crepe e lascia finalmente trapelare la verità su noi stessi. Suprematisti bianchi terroristi e poliziotti sono accomunati dal volto coperto, diventa così difficile distinguere il tutore dell’ordine dall’eversivo reazionario che vuole destabilizzare il sistema per farlo in realtà irrigidire ancora di più in svolte autoritarie devastanti.
Lindelof riesce a canalizzare queste tematiche all’interno di un racconto che spiazza e sorprende con scene ed eventi imprevedibili che difficilmente dimenticheremo. In particolare, il sesto episodio è un capolavoro assoluto, roba che entrerà di diritto nella storia dell’intrattenimento televisivo. Non diciamo come e perché, la protagonista Angela Abar assume delle pillole che, come nel bellissimo thriller Sci-fi Strange days (1995) di Kathryn Bigelow, le consentono di rivivere in prima persona i ricordi di qualcun altro. Si ritrova, dunque, nell’America del 1938, nei panni del nonno che fu tra le prime persone di colore a militare nelle forze di polizia di New York. Sebbene indossasse una divisa, il nonno subì angherie e soprusi violenti, forse proprio per colpa di quell’uniforme che, nella mentalità di allora, era impensabile addosso a un nero.
Angela diventa letteralmente suo nonno e l’intero episodio viene vissuto dal suo punto di vista, come una sorta di full immersion in un inconscio traumatizzato. Si passa senza soluzione di continuità da una situazione all’altra, tramite una serie di incredibili piani-sequenza, accompagnati da motivi jazz sincopati – come in effetti avveniva nel celebrato Birdman di Iñárritu, Premio Oscar nel 2015 –, con passaggi visivi che riproducono l’erranza tipica che la mente assume all’interno del proprio mondo onirico. Si viene dunque catapultati da un ricordo a un altro, portando alla luce importanti rivelazioni e trasportando lo spettatore in un excursus sensoriale trascinante ed emozionante. L’immedesimazione empatica che Angela prova nei confronti del nonno è totale ed è uguale a quella che viene instillata nello spettatore tramite una messa in scena magistrale. Alla fine dell’episodio Angela non è più la stessa e noi con lei.
Questo è solo un esempio di quello che ci aspetta guardando Watchmen, miniserie – così definita perché, fin dal principio, non è stato previsto un seguito – su cui nessuno avrebbe mai scommesso perché si confrontava con un mostro sacro dell’immaginario fumettistico mondiale e che invece adesso non esitiamo a definire capolavoro. Se siete arrivati fin qui avrete intuito che è impossibile, nello spazio di una recensione, rendere conto in modo esaustivo di un’opera tanto complessa per cui concludiamo utilizzando le indelebili parole con cui Rorschach trentaquattro anni fa ci schiuse un mondo: Le fogne si estendono nelle strade e le fogne sono piene di sangue e quando un giorno le fogne traboccheranno, i parassiti affogheranno tutti. La lordura accumulata per tutto il sesso e i delitti salirà schiumando fino alla loro cintola e tutte le puttane e i politici leveranno lo sguardo gridando “salvaci!” … e dall’alto io sussurrerò: “no”.