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Violenza di genere, una piaga culturale (a cui anche la cultura deve rispondere)

Redazione di Redazione
21 Febbraio 2024
in Viola
Tempo di lettura: 5 minuti
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In Italia muore una donna ogni tre giorni. Falso. In Italia, nel 2024, viene ammazzata una donna ogni due giorni.

Il 2023 si è concluso con un bilancio raccapricciante: le vittime di violenza sono state oltre il centinaio, 120 per la precisione, secondo i dati dell’Osservatorio Nazionale Non una di meno. Purtroppo, anche in questi primi mesi del 2024 i numeri non sono diminuiti, anzi.

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Tra le storie di cronaca nera più recenti, ci hanno colpito i fatti che hanno visto protagoniste, tra le troppe, la giovanissima Saman Abbas, scomparsa il 4 gennaio e il cui corpo è stato ritrovato senza vita; la brutale e fredda uccisione di Giulia Tramontano; l’assassinio della giovane Maria Michelle Causo; la scomparsa e l’omicidio di Giulia Cecchettin; l’uccisione della 53enne Rossella Cominotti; poi, nel mese di dicembre, il ritrovamento del corpo senza vita di Vanessa Ballan.

Dopo pochi giorni, il primo gennaio, alla terribile lista si è aggiunta la prima vittima del 2024, Rosa D’Ascenzo, uccisa a colpi di padelle dal marito. Vengono poi uccise a Naro Maria Rus, il cui corpo è stato trovato carbonizzato, e Delia Zarniscu, massacrata con colpi alla testa. E ancora Teresa Sartori, uccisa in casa dal figlio; Elisa Scavone, che ha perso la sua battaglia contro la morte dopo due giorni di agonia a seguito delle coltellate inflitte dal marito; Ester Palmieri, Annalisa Rizzo e Eva Kaminsha, i cui carnefici hanno scelto la strada più facile togliendosi la vita dopo averle brutalmente ammazzate; Antonella Salamone uccisa per mano del marito a Palermo l’11 febbraio insieme ai due figli; e ancora, alla vigilia di San Valentino, il duplice omicidio di Nicoletta Zomparelli e Renée Amato, madre e sorella minore di Desirée, miracolosamente sopravvissuta alla furia del suo ex fidanzato.

Donne accumunate da un destino con il volto fidato che ha scelto per loro, storie di una lunga, lunghissima lista, a cui mettere un punto sembra più utopico che mai. Sono trascorsi nemmeno due mesi dall’inizio del 2024 e l’asse delle ascisse va sempre più in alto, annebbiando le speranze che il marcio dilagato negli ultimi anni possa rimanere alle spalle.

La violenza di genere si è radicata nella società e in poco tempo si è tramutata in un’orribile piaga per la quale non sembra esserci ancora una cura. Il femminicidio si è insinuato così profondamente nella vita quotidiana da avere sempre più rilevanza dal punto di vista socioculturale, tanto da guadagnarsi il podio di “parola dell’anno 2023”. Femminicidio è infatti il vocabolo sintesi, scelto dalla Treccani nell’ambito della campagna #leparolevalgono, che meglio descrive, rappresenta e suggella l’anno scorso.

Un dato di fatto che ci lascia l’amaro in bocca, o almeno così dovrebbe essere. Possibile che la nostra realtà sia questa? Possibile che niente di meglio potesse rappresentarci? Femminicidio, l’uccisione diretta o provocata, eliminazione fisica di una donna in quanto tale, espressione di una cultura plurisecolare maschilista e patriarcale. È questa la definizione che meglio identifica il nostro 2023. E il 2024 sembra star seguendo e addirittura superando il suo precedente.

La scelta della Treccani è un chiaro campanello d’allarme che evidenzia la necessità di far conoscere, sensibilizzare, nonché discutere della tematica e, perché no, combattere il fenomeno con la cultura. I direttori dell’enciclopedia hanno voluto darci uno schiaffo per riprenderci dalla trance, hanno sperato di avere lo stesso effetto di una sveglia squillante che ci spezza il sonno e ci fa aprire gli occhi bruscamente per guardare in faccia la realtà e soprattutto affrontarla, per ricordare le vittime, rendere loro giustizia e  fare in modo che non ce ne siano più. Siamo in grado di farlo?

Se si guardano i grafici, il picco del numero di donne ammazzate fa rabbrividire per la quantità e la velocità con cui il fenomeno si è intensificato, fino a concretizzarsi “ogni due giorni”. Pensiamo anche solo al fatto che la parola femminicidio, non l’atto che definisce, è molto giovane nella lingua italiana. Fino agli inizi del secolo, infatti, il femminicidio non era identificato come tale, si tratta di una pratica certo radicata nel tempo, per la quale tuttavia non si sentiva l’esigenza di coniare un nuovo termine. In circa vent’anni l’uccisione delle donne è diventata un fenomeno così frequente e dai tratti così specifici da necessitare di una parola per definirla.

È infatti dal 2001, secondo i dati registrati dall’Istituto dell’Enciclopedia Italiana, che è risultato necessario dotarsi di una parola che descrivesse l’eliminazione fisica di una donna in quanto tale. Da neologismo, femminicidio è poi diventato un vocabolo d’uso comune, che non ci fa quasi più effetto, fino ad avere, nel 2023, il podio d’onore come parola dell’anno per il suo peso socioculturale.

In circa vent’anni la violenza di genere si è insinuata nella realtà, facendosi largo in maniera brutale, fino a diventare un fenomeno così frequente da diventare parte, ahimè, della cultura dello Stivale. Le storie che rimarranno impresse nella memoria lo dimostrano chiaramente.

Eppure, nonostante gli esorbitanti numeri, nonostante la chiarezza dei fatti, c’è ancora chi ha la faccia tosta e il coraggio di negare: “sì, ma anche gli uomini vengono ammazzati”; “sì, ma è tutta un’azione mediatica di femministe represse e isteriche”; “sì, ma hai visto come era vestita”; “sì ma chissà cosa deve aver fatto per farlo incazzare così…”. Basta.

Il femminicidio è una realtà. Il femminicidio è un crimine che va arrestato e punito. Ma è la radice che è marcia, è dalle fondamenta che bisogna partire. Il femminicidio è prima di tutto un fenomeno culturale, frutto di quella mentalità patriarcale in cui siamo cresciuti e dalle cui catene stiamo cercando di liberarci, ma che inconsciamente vive ancora in molti e ancora in molte. È quella cultura per la quale ci sentiamo piccole, per la quale evitiamo di mettere il vestito che tanto ci piace, o per la quale evitiamo di tornare sole tardi la sera, per la quale ci sentiamo in dovere di pulire casa e preparare da mangiare. Da qui bisogna partire per liberarci e smettere di essere vittime.

In quanto fenomeno culturale, però, anche la cultura deve svolgere il suo ruolo nella lotta contro la violenza di genere. Con questa consapevolezza, nel mese che va da San Valentino alla Giornata Internazionale della donna, Feltrinelli lancia la campagna di comunicazione Leggere insegna a leggere che ha come obiettivo la comprensione della realtà attraverso la lettura, per conoscere e denunciare le ingiustizie contro le donne. L’iniziativa comprende una serie di incontri con voci di spicco nel panorama culturale moderno, con focus sulla violenza di genere, per conoscere, riflettere e ragionare insieme in ampie discussioni sulla tematica. Il ciclo di incontri si concluderà il prossimo 8 marzo, con l’assegnazione del Premio Inge Feltrinelli, dedicato alle voci che si sono innalzate per farsi sentire e fare la differenza.

Iniziative come quella di Treccani o Feltrinelli mettono in luce la necessità di sradicare il marcio dalle fondamenta e combattere questo fenomeno con la cultura. Tuttavia, in una realtà in cui ha più importanza il balletto di John Travolta alla RAI, rispetto alle vite che ancora vengono troncate nei paesi in guerra, o che si spengono per la fame e la miseria, riusciremo davvero a espellere questo germe infetto?

Contributo a cura di Nunzia Tortorella

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