Sabbia e arbusti. Quaranta gradi e nessuna fonte d’acqua. Ad Al-Assah, a centocinquanta chilometri circa da Tripoli, la polizia di frontiera libica soccorre i migranti in fuga dalla Tunisia. Potrebbe sembrare una barzelletta di cattivo gusto immaginare che qualcuno, dalla Libia, aiuti uomini e donne in cerca di sopravvivenza e, invece, è quello che sta succedendo in questi giorni al confine tra i due Paesi nordafricani, lì dove non cresce nulla che non sia disperazione.
Le immagini – circolate poco in Italia, molto di più sulla stampa estera – ci restituiscono i volti stremati di chi è stato abbandonato in un’area disabitata e desertica, forse per lasciarlo morire, forse per alzare la voce, forse per disturbare i vicini che pure hanno tutto l’interesse a farsi notare.
Alcuni dei sopravvissuti raccontano di vere e proprie deportazioni, di violenze perpetrate dalle autorità tunisine che da settimane contribuiscono a quello che è a tutti gli effetti un rastrellamento fomentato dal Presidente Kaïs Saïed, l’ultimo dittatore a cui l’Europa dei giusti ha venduto vite che spera diventino morte.
È del 16 luglio, infatti, l’accordo tra Bruxelles e Tunisi che vede Saïed, Meloni, von der Leyen e Rutte sorridere a un memorandum d’intesa – più volte cercato – al fine di un maggiore controllo delle frontiere in cambio di un importante sostegno economico di cui, però, non si conoscono le cifre. L’obiettivo – si legge nel documento – è un approccio olistico alla migrazione per porre rimedio alle cause profonde dell’immigrazione irregolare. Ufficialmente, dunque, l’Unione Europea si impegna a fornire risorse per migliorare il sistema di ricerca e soccorso in mare, di pattugliamento delle acque territoriali e il controllo delle frontiere nordafricane. Tunisi, a sua volta, si impegna a favorire il rimpatrio dei propri cittadini arrivati illegalmente nel continente, pur sottolineando di non voler essere un Paese in cui risiedano gli irregolari. Ciò significa che non saranno aperti campi profughi o centri di accoglienza come, invece, avrebbe voluto l’Europa, anche in questo caso sbagliando.
In cosa consiste, dunque, l’accordo se non nell’ennesimo fallimento di una volontà comunitaria che, incapace di agire, subappalta consapevolmente disumanità? È questo – e soltanto questo – il metodo per rispondere all’emorragia di disperazione che si riversa nel Mediterraneo soccombendo alle acque salate o alle mani sporche di chi non conosce legalità? Nel memorandum si parla di rispetto dei diritti umani e delle leggi internazionali, ma quando i dittatori hanno avuto rispetto? Quando hanno riconosciuto i diritti umani?
Alla guida della Tunisia, c’è un uomo che da due anni ha sciolto il Parlamento, accentrato su di sé i pieni poteri e fatto arrestare chiunque potesse rappresentare un ostacolo alla sua corsa totalitarista. Come se non bastasse, ha scatenato una vera e propria caccia all’uomo, consegnando alla rabbia popolare gli immigrati provenienti dall’Africa sub-sahariana. Quegli uomini e quelle donne abbandonati nel deserto, costretti a nascondersi o a fare ritorno nei propri Paesi di origine.
Saïed, come molti dei suoi colleghi che fanno della questione migratoria il miglior capro espiatorio della loro incapacità politica, sostiene infatti che «l’immigrazione clandestina fa parte di un complotto per modificare la demografia della Tunisia affinché venga considerata come un paese solo africano, e non più anche arabo e musulmano». La teoria della “grande sostituzione” portata avanti dall’estrema destra di tutto il mondo e persino in casa nostra, dunque, ha fatto breccia anche in Africa. Il leitmotiv – complici i social e le numerosissime fake news – è sempre lo stesso: il nemico è l’altro e quasi sempre ha la pelle nera.
Perseguitati da Saïed, però, sono anche le persone omosessuali, gli oppositori politici, i sindacati e l’informazione – oggi totalmente al suo servizio. Insomma, un populismo autoritario e violento che incide sulle politiche comunitarie, e non solo, con il solito spauracchio migrante che, poi, è quello che sfrutta Erdoğan sul fronte turco o la guardia costiera libica che da anni estorcono milioni di euro all’Europa per tenere in ostaggio – e torturare – chi scappa in cerca di un Paese innocente. Non diversamente sta facendo – e farà – Saïed per pressare la riva opposta del Mediterraneo. Tanto, lo sa, è un metodo che funziona.
Da mesi, una grave crisi economica sta travolgendo lo Stato nordafricano. L’inflazione ha toccato cifre storiche, i costi delle importazioni sono insostenibili e pure i prezzi dei generi alimentari: a Tunisi, Cartagine, Sfax, c’è carenza di zucchero, pasta e altri beni di prima necessità, così sempre più tunisini sognano l’Europa che, in cambio, promette di aiutarli a casa loro.
I negoziati per un prestito del Fondo Monetario Internazionale – di circa 1,9 miliardi di dollari – sono a un punto morto e la Banca Mondiale ha annunciato già da marzo la sospensione sia del partenariato con la Tunisia sia dei colloqui sulla direzione strategica del Paese. Sembra un buon momento, dunque, per l’Italia e l’Europa, per riprendere il controllo di una zona che da sempre fa gola sia in chiave migrante sia per l’inseguimento della tanto agognata efficienza energetica che di avamposto in un continente dove l’accento asiatico comincia a farsi frequente.
È in questi termini, dunque, che la questione tunisina si fa interessante per chi ci governa. Non di certo per salvare o sostenere vite umane, ma per depredare, ancora, una terra già prosciugata. È in questi termini che la propaganda si autoalimenta, fornisce una nuova narrazione, l’idea che sarà qualcun altro a occuparsi di quelli che ci rubano il lavoro, le donne, il Paese tutto. Nel mezzo, però, ci sono corpi che cedono nel deserto, corpi che soccombono sotto i colpi della dittatura, corpi che si addormentano sognando un sogno a loro negato. Nel mezzo ci sono le centinaia di deportazioni da Sfax al confine con la Libia o l’Algeria, il caldo torrido e nessun riparo. Vince solo chi ha la pelle più dura o la fortuna più grande. Che, poi, secondo l’Europa, è finire nelle mani di un altro padrone, prima di finire in quelle della morte.