È da qualche anno che la cultura napoletana emerge in un laboratorio continuo di esperienze e di esperimenti che rendono Napoli – tutto il territorio centrale e periferico – all’avanguardia di un mutamento di rotta che è culturale, antropologico e ideativo tra i più fertili d’Europa e del mondo. E non sono gli organi di stampa cittadini a dirlo, ma addirittura quelli internazionali che additano all’intero globo questo enorme lascito di tradizioni, tesori d’arte e di mutazioni contemporanee nel senso di reazione positiva di una città al disastro che la civiltà attuale purtroppo ci consegna come quel disastro storico cui accennava Walter Benjamin e il cui unico conforto è l’Angelus Novus, l’annuncio nuovo che un intero popolo dice, ignorando di proposito i luoghi comuni e le infamie che, spesso ai limiti del razziale, vengono fatte contro questo stesso popolo che ha il solo difetto di aver capito tardi l’immensa straordinarietà della sua storia e della sua storia di arte.
Una cosa indescrivibile raccolta nelle pietre, nelle tombe, nelle leggende popolari e non, persino nella sua storia di santità barocca. Un eccesso che travalica i limiti di ciò che viene chiamato da Toynbee e da Fernand Braudel l’evo lungo delle grandi trasformazioni. E Napoli e i napoletani sentono questa grande trasformazione, il globalismo e l’ecumenismo di ogni popolo, come nel loro stesso dna di nascita e crescita. Ce l’hanno nel sangue da sempre, costituendo così di fatto quel porto ove ogni cosa trova il suo perché, senza troppi filosofemi. È così: prova ne siano le mille iniziative di arte sul nostro il territorio ma che conquistano sempre più spazio in Italia e all’estero come una delle poche culture resistenti al degrado e all’abbandono, tra mille sofferenze tra l’altro che ci appartengono tutte.
Ebbene, di recente il linguaggio e la cultura neapolitana sfondano letteralmente i muri dell’indifferenza con questa solidità radicale fatta di tradizione ostinata e popolare al contempo. Tra Matera, Lecce, Palermo e l’arco tirrenico della Calabria, il tradizionalismo antico e moderno squarcia i veli dell’insolito, del Mediterraneo vivo, delle sue leggende e della sua cultura. In particolare, tra Napoli e Lecce, due grandi città d’arte, si è stabilito un legame quasi di appartenenza reciproca. Ecco che autori campani trovano fertile terreno nell’editoria leccese e a loro volta esperienze del leccese trovano terreno di approdo nella città di Napoli. Ecco che tra tammorra e taranta si scoprono affinità di sostrato.
Il prossimo Festival delle Arti, organizzato dalla rivista Menabò e dalle edizioni Terra d’ulivi per il 22 e il 23 luglio, avrà ospiti tre autori napoletani – io, Vincenzo Crosio, Floriana Coppola e Matilde Cesaro – in una serie di incontri, dibattiti e interviste radiofoniche e web radio. In particolare a me è stato chiesto di rappresentare il teatro d’arte performativo popolare e tradizionale napoletano.
Essendo nipote d’arte e conoscendo bene per studio e conoscenza diretta tutti i passaggi storici della tradizione napoletana e meridionale, ho scelto di rappresentare Napoli attraverso l’universo simbolico della sua cultura immensa, comica e tragica insieme in una performance unica nel suo genere perché figlia di una elaborazione all’interno di quello che io definisco lo Shakespearian-neapolitan Theatre, che ha origini già nella mente di Eduardo de Filippo e di mio zio Gianni Crosio, insieme al figlio Luca negli anni fertili della collaborazione del Teatro San Ferdinando con la stessa produzione della Rai del Teatro di Eduardo.
Era convinto Eduardo, e lo so perché ne parlammo di persona in una sua visita al Liceo G.B. Vico, che sia la maschera di Pulcinella sia tutto il nobile teatro d’arte napoletano andavano visti come la naturale intuizione del Globe Theatre shakespeariano. Non male come intuizione. Sta di fatto che sia Leo de Berardinis che Carmelo Bene, pugliesi, due grandissimi geni del teatro d’avanguardia romano e nazionale degli anni Settanta e Ottanta, la pensavano allo stesso modo.
Di qui la mia idea di presentare il 23 luglio, in occasione del Festival delle Arti che si terrà nell’ex convento dei Teatini, una performance dal titolo Sanacore n’adda murì (Sanacore darf nicht sterben in tedesco, dato il carattere internazionale del festival stesso) che è una riedizione del teatro d’opera napoletano in cui canzone e versificazione andavano insieme sin dal Seicento ma che trovarono nel genio di Paisiello, di Petito, di Viviani e della macchietta napoletana una via artistica, tra gli Chansonniers francesi e l’avanspettacolo puro (in cui come sempre primeggiò il grande Antonio de Curtis, in arte Totò), che molto aveva segnato l’opera buffa da Mozart a Rossini, fino al teatro espressionista tedesco e i suoi Lieder, raggiungendo persino il teatro yddish mitteleuropeo, che tanto piaceva a Walter Benjamin, Gershom Scholem, Kafka e Brecht.
I testi e le musiche sono miei come pure l’intero impianto della performance, recitata e cantata, del teatro d’arte napoletano basato sul particolare burattino chiamato ’O Pazzariello. Insomma, abbandonando la mia solita prudenza e introversione, un’opera d’arte vera e propria che ricolloca il teatro napoletano dove gli spetta: in ambito internazionale.
Contributo a cura di Vincenzo Crosio
