Nel libro Storie di guappi e femminielli di Monica Florio (Guida editori, 2020), l’autrice conferma ancora una volta di rifuggire dal luogocomunismo della Napoli descritta come città abitata da diavoli o, peggio ancora, dalla ruffianeria della “napoletanità” che si esprime nella superficiale vitalità festaiola ripresa da tanta televisione e dalla produzione editoriale da cartoline illustrate per turisti. Con la raccolta di racconti Il canto stonato della Sirena (Il mondo di Suk, 2012), la giornalista e scrittrice napoletana, d’altronde, ci aveva narrato le storie di vita di personaggi emarginati dalla vita sociale per la loro diversità psicologica, sessuale ed esistenziale.
Nel saggio che ruota attorno alle figure del guappo e del femminiello, Monica Florio compie un ancora più inusuale viaggio attraverso la letteratura saggistica, giornalistica e i materiali iconografici che attestano le origini storiche spagnole e la cultura patriarcale più ampia dalla quale nascono e si affermano, in maniera articolata e con diversa fortuna, i protagonisti del libro. Il guappo è descritto come un personaggio che rappresenta sia il coraggio spudorato sia la violenza di quel codice deviante che domina la scena del vicolo e della Napoli popolare, dove trova spazio, tra sofferta emarginazione e verace umanità, anche la figura del femminiello. Entrambe le fisionomie, è chiaro, ci offrono una chiave interpretativa antropologica della vita sociale di una città e dei suoi abitanti, che ci dà la possibilità di andare al di là della “storia ufficiale” e di comprendere un mondo diverso, ormai passato, ma ancora testimonianza culturalmente significativa per comprendere la sfera più sotterranea, intima e occultata della realtà partenopea.
Il guappo rappresentava l’ordine microsociale – dal volto bonario, talvolta, ma pur sempre “maschio” prevaricatore – che si opponeva e, al tempo stesso, sostituiva quell’ordine statuale che opprimeva dall’alto ma non si prendeva cura degli uomini e delle donne che vivevano nelle arterie vitali di una città dai grandi problemi e dalle mille risorse. Nei vicoli dei quartieri popolari, inoltre, anche il femminiello veniva accettato, tra condanna sacra e profano sentimento di umanità, nonostante la sua “diversità” sessuale – o forse proprio per la vivace rappresentazione della parte nascosta del desiderio –, fino ad assumere il carattere di elemento vitale e perfino propiziatorio dell’esistenza, talvolta protagonista di manifestazioni popolari e perfino religiose, come la Candelora presso il Santuario di Montevergine ad Avellino o la Tammurriata in occasione della festa della Madonna dell’Arco.
Con l’avvento della contemporaneità, tra le luci e le ombre di un progresso materiale che non sempre è accompagnato da quello morale e di rado riconosce il valore del diritto e la difesa degli ultimi, soprattutto dal secondo dopoguerra del XX secolo, la figura patriarcale del guappo è scomparsa, fagocitata dalla ancora più violenta realtà del crimine organizzato. Quest’ultimo ha perso il discutibile ma forte vincolo esistenziale del riferimento urbano tradizionale per diventare spietato strumento della sopraffazione del potere affaristico nel sistema-mondo globalizzato, che troppo spesso non solo si oppone alla convivenza civile, ma addirittura si serve della corruzione insita nello stesso potere politico. La figura del femminiello, invece, ha perduto, in un lungo tempo storico, la sua ambivalente ma positiva valenza umana e comunitaria, rimanendo indifesa, fino al sorgere e al consolidarsi dell’associazionismo che si batte per i diritti delle persone che vivono il senso di appartenenza a un genere e la sessualità in un modo diverso da quelli tradizionalmente e socialmente accettati.
La ricostruzione saggistica di Monica Florio, portata avanti con uno stile narrativo avvincente e immediato, ci rimanda alle fonti giornalistiche, letterarie e alle espressioni dell’arte, della musica e del teatro che compongono uno straordinario e sorprendente affresco storico di una città e di un popolo descritti, troppo spesso, in chiave folcloristica, se non addirittura per mostrarne la presunta minorità culturale. In Storie di guappi e femminielli, invece, la parte buia ma preziosa della Napoli popolare è raccontata nella sua dimensione di realtà sotterranea, patrimonio misconosciuto ma vitale delle credenze e delle tradizioni più antiche, nonché della loro espressione sociale, artistica e culturale.