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Perché persiste lo stereotipo Scampia?

Marina Finaldi di Marina Finaldi
1 Giugno 2021
in Attualità
Tempo di lettura: 4 minuti
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Nei giorni scorsi, nel vivo dell’accesso dibattito generato dalla proposta di Enrico Letta di una dote per i diciottenni – che si vedrebbero corrispondere dallo Stato una somma in danaro ricavata dall’aumento della tassa sulla successione per i patrimoni oltre i 5 milioni di euro – è spiccato, tra il mucchio, il tweet polemico di Francesco Venier, docente all’Università di Trieste: Chi sa dirmi cosa farebbero con i 10.000 euro della dote Letta i diciottenni di Scampia?. Molti hanno colto – per la scelta dell’immagine che ritrae tre ragazzi con il cappuccio calcato sul capo mentre confabulano al fresco di un palazzone e per la scelta ambigua delle parole – una vena denigratoria nel messaggio, in una di quelle operazioni che accostano due cose talmente estranee fra loro (in questo caso, una somma in danaro relativamente consistente e l’immagine di un quartiere con lo stigma del crimine) da poter produrre in chi legge solo due reazioni: il disgusto o lo sdegno.

Storie come questa hanno grandi probabilità di permeare le maglie della comunicazione online perché semplificano all’osso situazioni complesse in cui il nemico è sempre lo stesso ed è povero/donna/immigrato/straniero. Che tu la pensi come chi ha scritto il post oppure no, sei praticamente obbligato a provare un automatico moto di indignazione. Motivo per cui il tweet del docente è rimbalzato sulle pagine dei maggiori quotidiani, sui profili degli opinionisti del web e sulle bacheche dei laici della comunicazione online. A livelli di intenzionalità certamente diversi nello scatenare la reazione della rete, si potrebbe tracciare un parallelo tra il caso Venier, l’escalation mediatica del caso Aurora Leone e, ancora – ma qui con l’intento strategico preciso di replicare a mo’ di virus il proprio distorto modo di leggere la realtà – i post/meme di Simone Pillon.

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scampiaNell’arco di una sola settimana, quella appena trascorsa, si sono avvicendate tre diverse tipologie di non-notizie, riprese da pulpiti digitali, riassumibili grossomodo così: a Scampia non c’è futuro, le donne non giocano a calcio, i maschietti sono portati per la matematica e le femminucce per fare le mamme. Alla ricerca dell’engagement, si parla del cosa e si trascura il perché. È indegno che il dibattito pubblico si incagli sulle stesse stereotipie di trenta, quaranta, cinquanta anni fa? Certamente sì. Eppure, fermarsi all’indignazione è proprio ciò che impedisce di concentrarsi sul perché del persistere di certe definizioni, stereotipi, categorie. Ragion per cui questo non vuole essere un articolo indignato, ma una domanda.

Il docente si è scusato per ciò che ha scritto, è vero, ma questo cambia forse qualcosa? E qui si potrebbe obiettare che, se non avessimo il diritto di tornare sui nostri passi, di correre ai ripari su una dichiarazione maldestra, vivremmo sul serio in quella dittatura del politicamente corretto, della cancel culture, del non si può più dire niente profetizzata da coloro che la possibilità d’esprimersi liberamente vogliono conservarla solo per sé. La domanda non ha intento censorio, né pone un veto alle lecite parole di scuse. Neppure pretende che suddette scuse siano sincere. Tuttavia, nell’osservare l’eterno ripetersi di vicende analoghe, in cui un uomo che occupa una posizione pubblica rilascia una dichiarazione controversa (per usare un termine, qui sì, politicamente corretto) su una categoria marginalizzata e poi la ritira in un’ammenda che – a livello mediatico – ha lo stesso peso di una nota a margine, è giusto domandarsi se, invece, sul piatto della bilancia dell’opinione pubblica non continui a gravare maggiormente l’influenza dello stereotipo.

L’intero quartiere di Scampia, con i suoi abitanti, il suo tasso record di disoccupazione, i suoi scempi architettonici, è funzionale come spauracchio e come pietra di paragone. La realtà complessa della periferia, che racchiude universi di storie e di vite, oscilla per esigenze narrative tra l’esasperazione della barbarie criminale che dal quartiere infesta le zone perbene della città, calando affamata di sangue per le strade in una nera piaga di scooter, lasciando dietro di sé la puzza della povertà, e la benevolenza indulgente che irradia il racconto delle eccezioni. A Scampia, tutto è straordinario. Il male è straordinariamente malvagio, il bene straordinariamente eroico. A Scampia, gli abitanti non sono mai salvi dalla spettacolarizzazione, dalla strumentalizzazione, dalla criminalizzazione e dalla vittimizzazione.

Una frase come quella utilizzata, a sproposito, da Francesco Venier è figlia di una stratificazione narrativa alimentata per decenni dai mezzi a stampa, televisivi, dell’intrattenimento. E funziona benissimo, anche nel 2021: lo spauracchio del teppista, magari aspirante camorrista, che bivacca coi soldi sottratti ai contribuenti, al cittadino onesto. La negazione e l’assenza di pari risorse criminalizza chi viene lasciato indietro dalla macchina di produzione e consumo, il racconto di questa assenza attribuisce al debole la colpa d’esser rimasto debole. Anzi, l’insinuazione che allo scarto della società venga addirittura concesso di diritto un premio in danaro ricavato tassando il ricco genera dissonanza, disorientamento.

Nel regime della narrazione per stereotipi, allo scarto di periferia non spetta nulla. Lui sta lì un po’ per infondere agli altri la percezione d’essere migliori, un po’ per ricordare loro che non sono mai veramente al sicuro. Finché farà questo, assolverà al suo compito involontario. Le rettifiche, i chiarimenti, le scuse del singolo nulla possono contro il racconto monolitico della marginalità. Per quanto rischi di risultare banale, un modo per combattere gli stereotipi è smettere di servirsene – anche quando si cerca di suscitare nell’altro reazioni di pancia – e interrogarsi, piuttosto, sul perché del loro persistere.

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