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Fatti i murales, facciamo le periferie

Mariaconsiglia Flavia Fedele di Mariaconsiglia Flavia Fedele
22 Febbraio 2019
in Il Fatto
Tempo di lettura: 5 minuti
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troppo caldo, tra cave abbandonate,

rotti argini, tuguri, fabbrichette…

Gli occhi scuri di Pier Paolo Pasolini scrivono versi al solo passare. Da qualche settimana accolgono i pendolari che danno le spalle alla stazione della metropolitana di Scampia, uno dei quartieri più noti del napoletano. Al loro fianco, a sostenere lo sguardo pieno del poeta, l’espressione fiera di Angela Davis, una donna più donna di tante altre, le cui battaglie ancora risuonano nell’animo di chi si comporta come se fosse possibile cambiare radicalmente il mondo. Entrambi i volti, grandi quanto le facciate degli edifici che li ospitano, portano la firma di Jorit, uno dei più interessanti talenti del graffiti writing contemporaneo che ha sconvolto persino Betlemme, un ritrattista moderno e iperrealista capace di restituire nuova vita alle personalità immortalate sui consuntipalazzi di città troppo pigre pure per ripulirsi il viso.

Napoli come Berlino, Lisbona, Roma, New York, ma anche tante altre. Capitali, metropoli, piccoli centri, colpiti tutti da una tendenza underground che da qualche anno, ormai, li contagia e li avvicina, spesso nelle loro periferie. Quelli di Pasolini e Davis, infatti, sono solo gli ultimi murales apparsi nelle strade lontane dal centro del capoluogo campano. Prima di questi, vi erano già state – per citare, forse, le più iconiche – le riproduzioni di Diego Armando Maradona a San Giovanni a Teduccio, quella di uno scugnizzo tipicamente partenopeo a fargli compagnia, il ritratto, nella stessa zona, di Ernesto Guevara de la Serna, il Che, il Comandante che vorremmo veder tornare, e quello di Marek Hamsik, storico capitano degli azzurri, a Quarto. Non dimentichiamo, poi, quello che probabilmente è il più noto di tutti, il graffito dedicato a San Gennaro, patrono di Napoli, nel cuore di Forcella, e il tributo alla straordinaria Ilaria Cucchi, la sorella di chiunque voglia credere ancora nella giustizia, nel quartiere Vomero.

Storie, nomi e personaggi che hanno segnato i trascorsi della città e non solo, spesso del mondo intero, di certo la formazione della coscienza di ciascuno, quantomeno di chi a quei volti e a quelle azioni ha dato un senso, un significato, un obiettivo concreto. Storie, nomi e personaggi che Jorit, ma anche tanti altri artisti, hanno scelto e scelgono di riproporre affinché non restino tali, magari abbandonati nel dimenticatoio. Uomini, donne, attivisti, rivoluzionari, persone comuni e personaggi celebri immortalati il più delle volte su edifici fatiscenti, che appaiono nient’altro che come metafora di una vita che per molti non è stata semplice e che per questo, forse, si è fatta motore di un cambiamento prezioso caparbiamente ricercato. Lo stesso per il quale si tende oggi a farne dei murales, a colorare con essi le periferie delle nostre città, come a significarne un riscatto. Ma basta quel che resta comunque un disegno, seppur ben fatto, a dare un volto nuovo a quelle zone definite degradate? Una bomboletta spray è davvero sufficiente ad affrancarle dalla malavita che di esse si nutre fino a sventrarle?

Il bello, dicono, educa al bello, all’armonia, a un benessere che dagli occhi arriva al cuore e poi all’anima che, quindi, si predispone alla vita e all’altro con maggiore energia ed empatia. Quando questo si limita appena a qualche edificio, però, non si può certo affermare che sia abbastanza. Basti pensare ai sopracitati quartieri di Scampia o di San Giovanni a Teduccio, dove non sono e non saranno le opere d’arte di Jorit né i graffiti di chiunque altro a garantire a chi li abita strade più sicure, servizi o infrastrutture. Non saranno muri colorati a rendere meno angusti palazzi pericolanti e fatiscenti costruiti come fossero carceri, l’uno accanto all’altro, così vicini da impedire alla luce di farvi ingresso, anch’essa inibita da un buio che sa come spaventare e volutamente tenuta fuori. Tantomeno argineranno i dati sempre più allarmanti in termini di abbandono scolastico, di disoccupazione e di povertà. Non basta il ritratto del Che per fare una rivoluzione, bisogna far rivivere le sue idee, le sue mani, le sue lotte, educare a esse, alla portata enorme della sua missione per cambiare un territorio. Bisogna raccontare ai bambini, agli adulti di domani, ma anche ai grandi di oggi, perché quell’uomo è stato importante più di altri, perché quello scugnizzo che affianca Maradona va ricordato come e più di lui, insegnandogli non a fare palleggi straordinari o epici gol di mano, ma a essere una persona perbene, come quell’Ilaria Cucchi che, monca di un fratello, non smette di cercare verità e giustizia, nonostante sia stata proprio la giustizia a voltarle le spalle.

Bisogna raccontare la diversità, invitare ad amarla, a comprenderla e a condividerla affinché Pier Paolo Pasolini non sia un nome lanciato nel vento, ma una storia da fare propria, come quella di chi abitava il campo rom andato in fiamme a Ponticelli, nella periferia orientale di Napoli, il cui volto, nelle sembianze di una bambina bellissima, ha dato vita, con il lavoro di Jorit prima e di La Fille Bertha, Rosk&Loste, Daniele Hope Nitti e tanti altri poi, a quello che è oggi il Parco dei Murales, nato per volere di organizzazioni sociali, culturali e volontariali che stanno cercando di offrire nuove opportunità alla popolazione residente, mosse dalla convinzione che insieme è possibile ottenere un riscatto socio-economico e culturale, seppur lento e graduale. Un’iniziativa promossa anche da INWARD, l’Osservatorio sulla Creatività Urbana, realizzata all’interno del Parco Merola, un complesso residenziale ospitante ben 160 famiglie – per un totale di circa un migliaio di persone – trapiantate lì sin dal terremoto del 1980, sisma per il quale molti ancora vivono in condizioni precarie.

Un’esperienza artistica dal valore straordinario che mescola stili e intenti diversi, affrontando temi quali l’importanza della lettura, del gioco – quando non si fa alienante –, della solidarietà, di una società fatta di ponti e non di muri, ma anche molti altri, sempre attenti all’essere umano, al suo stare in un mondo condiviso e non isolato, chiuso nel proprio io. Un messaggio inestimabile che spinge ogni giorno nuove persone a scoprirne la portata grazie alle associazioni e ai volontari che, come sempre – e Scampia, in questo, fa da maestra –, si attivano lì dove lo Stato continua a latitare. Perché Ponticelli, una delle zone con il più alto tasso di disoccupazione e dispersione scolastica, è anche terra di povertà, di criminalità organizzata, di strade dissestate e di persone costrette a non muoversi di casa perché i mezzi pubblici scarseggiano, come spesso nei quartieri che, quasi a scusarsi, si definiscono difficili quando, in realtà, difficile è per chi li vive non sentirsi cittadino inferiore poiché inferiori sono i diritti a lui garantiti. Spesso quasi nulli.

Non voglio più accettare le cose che non posso cambiare: voglio poter cambiare ciò che non accetto, diceva Angela Davis. Ed è forse proprio dal suo leitmotiv che bisogna ripartire, pretendendo che un’opera d’arte non si trasformi in compromesso, in finta emancipazione, in riscossa apparente ma blanda. Dai sobborghi al centro, questo è l’obiettivo: senza illudersi, però, che bastino i fiori a fare le rivoluzioni, perché non è così. Armiamoli quei cannoni, riempiamoli di diritti, di lavoro, di vita vera. Chiediamola a gran voce. Fatti i murales, dunque, facciamo le periferie.

E, non lontano, tra casette

abusive ai margini del monte, o in mezzo

a palazzi, quasi a mondi, dei ragazzi

leggeri come stracci giocano alla brezza

non più fredda, primaverile

Prec.

And after all, you’re your own Wonderwall

Succ.

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