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Violenza in pronto soccorso: un fenomeno ampio

Martina Benedetti di Martina Benedetti
17 Gennaio 2024
in Attualità
Tempo di lettura: 4 minuti
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Assistiamo, impotenti, all’ennesimo caso di cronaca che ci lascia desolazione e amarezza negli animi. La dottoressa Anna Procida, infermiera, viene aggredita nella serata del 3 gennaio presso il pronto soccorso dell’ospedale San Leonardo di Castellammare di Stabia. Il parente di un paziente la strattona, la trascina per i capelli, la sbatte a terra e, infine, la colpisce con un violentissimo pugno al viso. Non è un “action movie” ma il peggiore degli incubi di un professionista divenuto realtà.

La reazione violenta è scattata a causa di un semplice invito, rivolto ai numerosi familiari presenti, a spostarsi in sala d’attesa. Questo per consentire al personale di assistere in maniera più consona tutti i pazienti. Anna Procida svolgeva il suo lavoro ed è tornata a casa, dalla famiglia, con un certificato di 25 giorni di prognosi e il volto tumefatto. I lividi più sordidi di questa violenza, oltre alle numerose lesioni, sono quelli che porterà nell’anima per sempre. Non si tratta di un caso isolato ed è importante che se ne continui a parlare.

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OMS sottolinea che la violenza e le molestie colpiscono tutti i gruppi di operatori nei vari ambienti di lavoro nel settore sanitario. I casi di aggressione e violenza ai danni del personale sanitario accertati dall’INAIL nel 2022 sono più di 1600, in aumento sia rispetto al 2021 sia rispetto al 2020, quando l’accesso alle strutture ospedaliere e assistenziali è stato fortemente limitato a causa dell’emergenza Covid-19. Utile precisare che si tratta di un dato parziale perché non comprende i medici e gli infermieri liberi professionisti che non sono assicurati dall’INAIL, inclusi i medici di famiglia e le guardie mediche. Il dato del 2022 resta, tuttavia, al di sotto di quanto rilevato nel periodo ante-pandemia: nel 2018 e 2019, infatti, i casi di violenza nella sanità sono stati oltre 2000 l’anno.

Sempre dall’indagine INAIL emerge che nella maggioranza degli episodi gli aggressori sono i pazienti e i loro parenti. Un terzo degli aggrediti sono infermieri e fisioterapisti. Quasi il 60% degli episodi avviene al Nord, Lombardia ed Emilia-Romagna sono le regioni più colpite.

Se questi dati sono sotto gli occhi di tutti, da molto tempo, perché dobbiamo aspettare ogni volta l’episodio più grave per indignarci? Perché è sempre più facile voltarsi dall’altra parte. Perché arrivare alla radice di questa problematica implicherebbe anche un j’accuse verso le stesse aziende sanitarie.

Riguardo l’aggressione della dottoressa Procida,  il direttore generale della ASL Napoli 3 Sud Giuseppe Russo e il direttore di presidio Massimo Maiolo hanno espresso  solidarietà e vicinanza alla professionista aggredita. A questo punto, mi permetto di dire,  a che cosa servono le ennesime parole di sostegno? Spero che a queste si accompagnerà un reale potenziamento di organico dei presidi di emergenza e urgenza.

Il dibattito, al momento, è già stato improntato sull’inasprimento delle pene per gli aggressori. Si parla di militarizzazione degli ospedali come soluzione ma raramente si ragiona sulle singole responsabilità aziendali.

Negli organici di polizia e carabinieri, a oggi, mancano 26mila unità effettive. Questo secondo la denuncia dei sindacati di categoria. Sarebbe, dunque, una soluzione fattibile quella di militarizzare gli ospedali? Inoltre, quello delle aggressioni è un fenomeno direttamente proporzionale al lento processo di sgretolamento delle basi del nostro SSN pubblico.

Perché non ragionare in un’ottica a lungo termine sulle cause reali di questi fenomeni, quindi sulla carenza di organico e il prolungamento dei tempi di attesa?  Che cosa si sta, realmente, facendo per risolvere la crisi dell’emergenza e urgenza?

Se un dirigente di presidio permette alle sue unità di lavorare sotto organico diviene, a sua volta, complice di un sistema che spinge a mettere in pericolo il professionista stesso. Non può, alla fine, restare sorpreso dall’atto di un’aggressione che non è altro che la punta di un iceberg con le fondamenta intrise nella mala gestione aziendale.

Dobbiamo, in parte, molte di queste aggressioni ad anni e anni di politiche aziendali basate su risparmio di capitale umano. Politiche che hanno portato ai disservizi (non mi riferisco, nello specifico, a questo singolo caso di cronaca). Mancano i mea culpa da parte dei “cattivi manager” ed è assente un organismo di controllo all’interno dei gruppi di lavoro che possa allontanarli. Allontanare coloro che non svolgono delle buone politiche nei confronti del capitale umano dalle aziende pubbliche.

Inutile, anno dopo anno, mostrare gli allarmanti dati sul burn out senza parlare delle reali cause che lo scatenano nelle aziende e, soprattutto, andare a correggere tali cause.

La fotografia attuale che ci mostra lo studio BENE (BEnessere degli Infermieri e staffiNg sicuro negli ospEdali) ci dice: oggi il burn out colpisce 6 infermieri su 10. Chi permette il proliferare di ambienti lavorativi malsani è complice della messa a rischio della sicurezza sia degli operatori che dei pazienti. Quindi, oltre all’impegno politico, vi deve essere un forte impegno manageriale per rendere i contesti lavorativi sicuri ed evitare il proliferare di ulteriori casi di violenza.

Prec.

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