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Migranti: l’umanità non muore in Bosnia, è già morta

Mariaconsiglia Flavia Fedele di Mariaconsiglia Flavia Fedele
2 Febbraio 2021
in Il Fatto
Tempo di lettura: 7 minuti
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Lo chiamano the game, il gioco, ed è il tentativo di attraversare il confine che li separa dall’Europa. Il Vecchio Continente, per loro, è la terra promessa, il luogo dove, finalmente, poter cominciare a vivere. Il più delle volte resta solo una speranza. A fermarli, quando non è il gelo, è la polizia di frontiera, l’incubo dei migranti di tutto il mondo, i sicari dell’accoglienza in doppio petto, la promessa che si trasforma in illusione.

Arrivano dall’Afghanistan, dall’Iraq, dal Pakistan, dalla Siria, da quel Medio Oriente che hanno attraversato nelle loro scarpe rotte, spesso nemmeno quelle. Scappano per esistere, scappano per essere e diventare, scappano perché la primavera araba si è fatta rigido inverno. Un esito prevedibile e pronosticato. Non hanno niente, nemmeno paura. Sono stati spogliati persino di quella.

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Il gioco, dicono, può ripetersi anche otto, dieci volte, tutte quelle necessarie a sfuggire ai controlli, a vincere la violenza, a valicare il limite tra ciò che è umano e ciò che non lo è più. Ma se di mezzo c’è la polizia di confine distinguere il primo dal secondo è una sfida ambiziosa. Di divise, lungo la rotta balcanica, se ne incontrano molte, ma a terrorizzare, più di altre, è quella croata, l’immagine della frontiera europea di cui i migranti portano i segni sulla pelle. La zona presidiata è il confine di terra più lungo dell’Unione, pattugliato da uomini armati, termoscanner, droni, cani, una zona dalla quale non si esce – se si esce – mai del tutto indenni. Perché se sei migrante, la vita è un infinito girone infernale. Se sei migrante, sei soltanto un dannato della Terra.

Stando al Danish Refugee Council (DRC), tra dicembre 2019 e ottobre 2020 sono stati respinti dalla Croazia verso la Bosnia circa 21422 migranti. Il 60% delle persone che hanno tentato di attraversare il confine ha subito violenza e la responsabilità – sostiene Gianfranco Schiavone, Presidente del Consorzio Italiano di Solidarietà – è tanto di Zagabria quanto dell’UE: «Quest’operazione di mantenimento forzato fuori dai confini è una scelta. Quello che si è visto negli ultimi tre anni è legato ai respingimenti, la vera causa della crisi umanitaria». In merito, il 20 novembre è stata aperta un’inchiesta sulle possibili responsabilità della Commissione Europea nel mancato rispetto dei diritti dei migranti e dei rifugiati in Croazia.

Nello stesso rapporto, DRC fa riferimento anche ai 9mila respingimenti della Slovenia. Quelli per i quali l’Italia è stata appena condannata. Dallo scorso maggio, infatti, il Bel Paese ha respinto circa 1300 persone. Il 22 gennaio, però, accogliendo il ricorso di un richiedente asilo pachistano, il Tribunale di Roma ha imputato al Ministero dell’Interno la violazione dell’articolo 10 della Costituzione, dell’articolo 33 della Convenzione di Ginevra e dell’articolo 3 della Convenzione Europea dei diritti dell’uomo. E non una sola volta.

Come dimostra un’inchiesta condotta dalla rivista Altraeconomia, infatti, la polizia di frontiera di Trieste e Gorizia ha rimandato indietro 1240 migranti e richiedenti asilo tra gennaio e metà novembre del 2020 – il 420% in più rispetto all’anno precedente – causando, per molti, respingimenti a catena in Slovenia e Croazia fino in Bosnia. Ed è da lì, dalla Bosnia, che arrivano le immagini più dure di queste ultime settimane. Almeno per chi non ne ancora è del tutto assuefatto.

Sono almeno 2500 le persone che, secondo l’Organizzazione Internazionale per le Migrazioni (OIM), vivono al di fuori del sistema di accoglienza, bloccate nei pressi della città di Bihać, nel nord-ovest del Paese. La polizia croata le ha rispedite indietro senza pensarci due volte, il rogo del 23 dicembre le ha condannate al gelo di un inverno che raggiunge anche i -15 gradi. Quando il campo profughi di Lipa è andato a fuoco, i migranti si sono riversati nelle vicine foreste, lì dove hanno cercato riparo, un luogo in cui sopravvivere mentre la neve copriva ogni cosa, persino il dolore. Qualcuno ha costruito delle capanne di legno, qualcun altro delle strutture di fortuna in lamiera in quella che chiamano la Factory, un ex complesso industriale, degradato e pericolante. Non hanno acqua né fognature, elettricità o riscaldamento, i bracieri bruciano qualsiasi cosa, la fuliggine riempie i polmoni e smorza il respiro, le rare condotte che spuntano dal terreno sono l’unica fonte – non potabile – di abbeveraggio.

Non hanno indumenti, a volte soltanto vecchie t-shirt estive, altre a malapena un qualche brandello di pantaloni, perché al confine gli agenti li hanno privati di tutto: abiti e ciabatte, zaini e ricordi. Le dita dei tanti piedi nudi non sentono più niente, incancrenite e sporche, il sangue è come cristallizzato. Con esso, anche l’Europa che non sente, non vede, non fa. A fare, intanto, pensa la scabbia, che dà prurito e rimanda ad altri tempi.

Bihać è al centro del bellissimo Parco Nazionale di Una. Da qualche anno, complice la limpidezza dei suoi fiumi, è diventata ambita meta turistica dopo aver subito a lungo gli orrori di una guerra senza vincitori che ancora si avverte. È per questo, forse, che gli abitanti della zona sono stanchi, adirati con l’Europa che non si prende i migranti e con i migranti che per forza vogliono andare in Europa. La propaganda è sempre la stessa: rubano, violentano, portano le malattie. Ma la malattia, qui come altrove, è un’altra e non si combatte a parole.

Dal 2018 a oggi, la Commissione Europea ha inviato più di 88 milioni per la gestione dei profughi in Bosnia-Erzegovina, ma non sono bastati. E non basteranno finché ai fondi si affiancheranno, sempre, le politiche di rafforzamento dei confini che da tempo, e in tutto il continente, si stanno facendo più prepotenti. Soprattutto, non basteranno finché l’altro non smetterà di essere la scusa, la causa e la risposta della negazione dei diritti cui assistiamo inermi, mentre il capitalismo si sgretola su se stesso.

I fatti di Bihać e Lipa erano una tragedia annunciata. Soltanto pochi mesi prima, l’OIM aveva dichiarato la prossima inagibilità del campo. Aperto nella primavera del 2020, nell’unico terreno messo a disposizione dalla municipalità durante l’emergenza COVID, il governo bosniaco si era impegnato a occuparsi dell’elettricità e della messa in sicurezza dell’area ma niente, in tal senso, è stato tentato. È per questo che l’organizzazione aveva deciso di lasciare la struttura a fine dicembre, per non essere complice delle condizioni di vita che quelle persone avrebbero sperimentato. Negli stessi giorni, però, un grosso incendio ha distrutto tutto, costringendo i rifugiati a scappare nei boschi circostanti e a restarci tutt’oggi. Con queste temperature, infatti, è impossibile, per loro, tentare il gioco, sfidare la natura e la furia degli agenti di confine. Intanto, l’8 gennaio un altro centro di accoglienza, quello di Blažuj, è andato in fiamme. Nessuna motivazione ufficiale.

Per ovviare all’emergenza era stato proposto di riaprire il campo di Bira, chiuso lo scorso settembre su decisione delle autorità del cantone Una-Sana senza l’approvazione del governo centrale. Una soluzione a cui gli abitanti si sono opposti duramente, organizzando picchetti a presidio della zona che hanno portato i migranti a muoversi inutilmente verso Sarajevo. Un episodio triste, utile tuttavia a comprendere la complessa situazione amministrativa del Paese, diviso in Repubblica serba e Federazione croato-musulmana, a loro volta organizzate in dieci cantoni e altrettante volontà storico-politiche diverse e, spesso, contrarie.

Secondo una stima dell’OIM, dei 16mila che hanno attraversato il Paese nel 2020, i migranti attualmente sul territorio bosniaco oscillano tra gli 8mila e i 9mila. Di questi, soltanto 6mila sono ufficialmente registrati. Gli altri, i tantissimi altri, lottano al gelo tra la vita e la morte. Molti, moltissimi, sono minori: almeno 500 non accompagnati. Altri 400 al seguito di un genitore. Appena qualche mese fa, il Guardian aveva raccontato le storie di migranti derubati, picchiati, addirittura marchiati, sul capo, da croci rosse disegnate dagli agenti di polizia croati come cura contro il coronavirus. Una sorta di stella di David a individuare l’impuro. Ma era soltanto l’ultimo dei casi più eclatanti. Quella dei respingimenti – con tanto di tortura – è, infatti, una prassi ormai consolidata ovunque, in spregio a leggi umane e internazionali che sembrano pura facciata.

Ne scrivevamo a marzo, quando le immagini dal confine greco-turco e dall’isola di Lesbo ci stavano scandalizzando mobilitando le belle parole della bella Europa, eppure non erano così diverse da quelle che oggi giungono dalla Bosnia. Anche allora, un numero imprecisato di migranti si trovava intrappolato su strade dove creare accampamenti di fortuna, spesso sulle montagne, profughi in condizioni igienico-sanitarie praticamente nulle. L’ONU parlava della più grande crisi umanitaria del nuovo millennio. La stessa di adesso.

La rotta balcanica è la tratta meno raccontata tra quelle attive a Oriente, eppure ogni anno è protagonista di migliaia di viaggi della speranza, dal confine croato alle acque dell’Evros, lì dove molti corpi vengono recuperati e altri persi per sempre. Dal 2016 è quasi del tutto chiusa in seguito al discusso accordo – noto come dichiarazione congiunta – che ha visto l’UE promettere alla Turchia circa 6 miliardi di euro in tre anni affinché potesse gestire l’enorme numero di profughi, sorvegliare al meglio il confine con la Grecia e costruire strutture idonee all’accoglienza dei migranti. Un accordo che avrebbe violato varie leggi internazionali e che non ha impedito a Erdoğan di aprire le frontiere per minacciare l’Europa e sfruttare la disperazione di milioni di persone senza più nulla. Così come appaiono ai nostri occhi.

Lo chiamano the game, è vero, ma attraversare il confine tra la vita e la morte certa non è un gioco. Non lo è per chi tenta la traversata e non può esserlo per noi che restiamo a guardare. Non può esserlo per quelle divise intrise di nazismo cui commissioniamo il nostro lavoro sporco, millantando finte mani pulite. Perché se lo fosse, non si spiegherebbero i motivi per i quali a chi vuole indagare – come successo lo scorso weekend ad alcuni europarlamentari, tra cui Pietro Bartolo, già medico a Lampedusa – viene impedito di vedere con i propri occhi, di parlare con i migranti, di testimoniare e raccontare al mondo cosa sta succedendo. Prima di amare impara a camminare sulla neve senza lasciare traccia, recita un proverbio turco. Ma sappiamo come fare?

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