Da un anno, in Sudan, si sta consumando un conflitto molto violento. È scoppiato il 15 aprile del 2023, a circa tredici mesi di distanza dalla guerra in Ucraina, ma non se n’è accorto nessuno. Non ci sono telegiornali che aprono con questa notizia, sui quotidiani latitano le ricostruzioni dei fatti, figuriamoci gli aggiornamenti. La politica, beh, fa soltanto politica.
Così, nonostante nel giorno del primo anniversario a Parigi si tenga una conferenza internazionale organizzata da Francia, Germania e Unione Europea per discutere della crisi umanitaria – in risposta anche alle varie ONG che lanciano appelli per migliorare l’accesso degli aiuti, proteggere i più piccoli e allontanare l’ipotesi non tanto tale di carestia – l’opinione pubblica non sembra essersi resa conto o preoccuparsi minimamente di quanto sta accadendo.
Dall’inizio degli scontri a Khartoum tra l’esercito (FAS) del generale al-Burhan, Presidente del Consiglio Sovrano di Transizione dal colpo di Stato del 2021, e le Forze di supporto rapido (RSF) di Dagalo, più noto come Hemetti, le violenze si sono diffuse in tutto il Paese, in particolare nella regione del Darfur, già protagonista vent’anni fa di un aspro conflitto su base etnica tra i miliziani arabi janjawid e le popolazioni nere.
Circa 10,7 milioni di persone sono state costrette ad abbandonare le proprie case, il più alto numero al mondo. 1,8 milioni sono fuggite all’estero, in Sud Sudan soprattutto, in Ciad (dove si è consumato il più imponente arrivo di profughi nella storia del Paese), in Egitto, in Uganda e persino nella Repubblica Centrafricana. L’Agenzia ONU per i rifugiati (UNHCR) dichiara che anche in Europa è aumentato, fino a sei volte, il numero di sudanesi in cerca di protezione. Gli altri sono sfollati interni che per forza di cose continueranno la loro migrazione.
Più difficile, invece, è il conteggio delle vittime, che variano dalle 14800 alle 15mila uccise soltanto a El Geneina, in Darfur, dove RSF, considerata una naturale evoluzione degli janjawid, ancora oggi approfitta del conflitto per portare avanti il processo di pulizia etnica. Chi sopravvive, invece, lo fa in condizioni precarie, con più di 10 milioni di bambini (uno su due) che si trovano o si sono trovati a meno di cinque chilometri dalla linea del conflitto, esposti a bombardamenti, scontri armati e attacchi aerei, il tutto per una lotta di potere tra chi un tempo era alleato nella rivolta e oggi intende prendersi il controllo totale. 18 milioni di persone vivono in grave insicurezza alimentare. Ma chi lo sa?
Da circa cinque anni, il Sudan subisce una costante instabilità politica e nessuna – scarsa – mediazione sembra poter quietare le acque: «La comunità internazionale non sta esercitando sufficienti pressioni sulle parti in conflitto» ha dichiarato Tigere Chagutah, direttore di Amnesty International per l’Africa orientale e meridionale. «C’è voluto quasi un anno perché il Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite adottasse una risoluzione per chiedere l’immediata cessazione delle ostilità e l’ingresso privo di ostacoli degli aiuti umanitari. Ma, persino dopo quella risoluzione, i combattimenti sono proseguiti in tutto il Sudan e non è stata presa alcuna iniziativa per proteggere i civili».
Soltanto nell’ottobre scorso, l’UNHCR ha istituito una missione di accertamento dei fatti con il mandato di indagare e verificare le cause delle violazioni commesse. Ciononostante, ancora oggi mancano fondi e personale adeguati. Persino il Programma Alimentare Mondiale (PAM) è stato finanziato solo per il 5%. Amnesty International denuncia, dal lontano 2003, prove di crimini di guerra, crimini contro l’umanità e violazioni del diritto umanitario internazionale che vanno dalle uccisioni illegali di civili a stupri e uso di armi chimiche.
Il Segretario generale delle Nazioni Unite Guterres si è detto «costernato dalla violenza»; l’Alto Commissario ONU per i diritti umani, Volker Turk, ha parlato di Sudan come «incubo vivente», con quasi la metà della popolazione (25 milioni di persone) che ha «urgente bisogno di cibo e assistenza medica» e oltre l’80% degli ospedali distrutti, come indicato anche da Emergency. «Senza indugio, la comunità internazionale deve concentrare la propria attenzione su questa crisi. Il futuro del popolo sudanese dipende dalle nostre azioni» ha continuato. Ma qual è questa attenzione? Quali sono gli sforzi? Perché di Sudan non si è parlato e continua a non parlarsi? Possibile che, ancora, di Africa non ci importi?
In un articolo intitolato Perché l’Occidente si è rifiutato di fermare il genocidio ruandese (da leggere, tutto, qui: https://thewalrus.ca/the-west-rwandan-genocide/), Roméo Dallaire, nel 1994 comandante della missione dei caschi blu UNAMIR in Ruanda, ricostruisce una delle più atroci mattanze della storia in occasione del trentennale della morte di 800mila persone in appena cento giorni, puntando il dito nei confronti delle Nazioni Unite e delle principali potenze mondiali che all’inizio, scrive, parlarono di pasticcio complicato, probabilmente solo tribale. Qui, dicevano, non c’è niente per noi. Nessuna risorsa strategica. L’unica cosa erano le persone, e comunque ce ne erano troppe.
Fu solo sei settimane dopo, con mezzo milione di corpi massacrati sparsi sugli schermi televisivi di tutto il mondo, che il Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite accettò finalmente di definire questo “pasticcio complicato” un genocidio e approvò il rinforzo di 5.000 soldati. […] Il genocidio finì a luglio. Le prime truppe scesero a terra in agosto. Venivano dall’Etiopia, dove era appena finita una guerra civile […]. Non avevano munizioni. O radio. O forniture. Era comunque troppo tardi.
Pare che i Paesi membri fossero riluttanti a inviare truppe per la recente morte dei soldati americani a Mogadiscio. Eppure, tra il 1992 e il 1996, la comunità internazionale non ha tentennato nell’invio di decine di migliaia di truppe nell’ex Jugoslavia per prevenire la pulizia etnica. In tre mesi in Ruanda sono state violentate, uccise e sfollate più persone che in quattro anni di guerra in Bosnia. Il messaggio chiaro: i neri africani erano meno importanti, meno preziosi, meno meritevoli di assistenza e sacrificio rispetto ad altri esseri umani.
Il mondo aveva deciso quali persone contano e quali no. Quel grottesco ordine gerarchico dell’umanità, messo a nudo negli anni ’90, funziona ancora oggi. […] Mentre le cause della maggior parte dei conflitti africani sono profonde e sono difficili da isolare – anche se la responsabilità ricade in gran parte sulle potenze coloniali – le radici del disinteresse nel contribuire a porre fine a tali conflitti sono relativamente semplici da definire: politica e razzismo. La politica dell’interesse personale mantiene determinati paesi, conflitti e persone inclusi nelle politiche e nei media mondiali. Il razzismo tiene fuori l’Africa.
Quella mancanza di empatia, mista alle cause più che condivisibili sottolineate da Dallaire, è esattamente quanto si percepisce oggi nei confronti del Sudan. Mentre il mondo “guarda” all’Ucraina, vorrebbe patteggiare con la causa palestinese ma il 7 ottobre…, la parola genocidio si impone nella quotidianità senza tuttavia darle il giusto valore, ancora si continua ad accettare – soprattutto ignorare – le atrocità di massa come parte normale, quasi naturale, della politica africana. I paesi occidentali e settentrionali consideravano (considerano) l’Africa un continente da compatire, non una fonte di potenziale; non era certamente una priorità.
L’inazione della comunità internazionale in Ruanda è stata infernale, ma è anche illuminante scomporla al ruolo svolto dai singoli Stati membri, scrive ancora Dallaire. E in parte, tutt’oggi, ci aiuta a capire il mondo: Il genocidio dovrebbe avere importanza. Dovremmo preoccuparci. Ma nessuna nazione ha voluto fornirci le risorse per fermare il massacro. Apparentemente, alcuni esseri umani semplicemente non sono degni di protezione ai sensi delle convenzioni sui diritti umani che si sono sviluppate nelle nazioni più ricche del Nord del mondo e che dovrebbero essere applicate universalmente. L’indifferenza aveva segnato il destino del Ruanda molto prima che tentassimo di salvarlo.
Potrebbe succedere in Sudan, sta succedendo a Gaza, in Siria, nei campi di concentramento dove il governo di Pechino rinchiude gli Uiguri. Un altro olocausto taciuto. Potrebbe succedere ovunque senza che ci si preoccupi nemmeno di parlarne. Forse, aveva ragione Mitterrand quando ammise che in paesi come questi il genocidio non è importante. Il francese lo disse pubblicamente, noi nascondiamo la testa sotto la sabbia. Bravi soldati, grandi struzzi.