È stato il sogno di tanti, per anni, da sempre. Quantomeno nell’epoca contemporanea. Molto più dell’inaccessibile America, molto più della fredda Germania, molto più dell’inconcludente Italia. Eppure, il Regno Unito si fa adesso più distante, lontano come forse non è mai parso prima. Neppure il 23 giugno del 2016, quando un referendum consultativo ne ha sancito l’uscita dall’Unione Europea con il 51.9% dei voti a favore. Da allora, la Brexit, il processo di indipendenza decretato dall’articolo 50 del Trattato di Lisbona – tra l’altro ampiamente disatteso nei limiti stabiliti –, si è rivelata più lunga e difficile del previsto.
Il Regno Unito rappresenta una delle maggiori potenze mondiali ed europee, per tale motivo la sua uscita dall’U.E. non può non avere dei risvolti significativi sul piano socio-economico internazionale. A più riprese, dunque, si è tentato un dialogo tra le parti affinché il leave diventasse effettivo in una forma più leggera. Ciò nonostante, già rinviato a gennaio, marzo e maggio scorsi, a poche settimane dal 31 ottobre – termine ultimo concesso da Bruxelles – il no deal continua ad apparire la soluzione più probabile. Uno scenario che spaventa i mercati e gli investitori stranieri, con la sterlina che perde di valore e il PIL costantemente in picchiata.
A tal proposito, non aiutano le ultime decisioni prese tra Downing Street e Buckingham Palace mercoledì 28 agosto. In quella data, infatti, Boris Johnson ha chiesto alla Regina Elisabetta la sospensione del Parlamento fino al 14 ottobre. Una manovra reazionaria – ma consentita dalla Common Law britannica – che, di fatto, impedirà la discussione in Aula di una delle pagine più importanti della storia targata UK. L’intenzione, accusano gli oppositori, è arrivare alla Brexit senza intralcio alcuno e nelle modalità imposte dal Primo Ministro, apertamente in contrasto con Westminster. D’altro canto, nelle precedenti occasioni, qualsiasi tipo di proposta è andata bocciata, portando la May a rassegnare le dimissioni e a ipotizzare persino un secondo referendum.
La prorogation – così viene indicata la sospensione dei lavori parlamentari – è una procedura ordinaria che intervalla la fine di una sessione e l’inizio di quella successiva, con il celebre Queen’s Speech che inaugura l’insediamento delle Camere limitandosi alla lettura del programma del nuovo governo. Al termine, la House of Lords e la House of Commons elaborano, ciascuna per sé, un documento di risposta, continuando il dibattito sul programma annunciato nei giorni a seguire. Una procedura che si avvia su richiesta del Primo Ministro e che, per convenzione, il sovrano è tenuto ad approvare.
Uno strumento legittimo, dunque, quello utilizzato da Boris Johnson, che, tuttavia, spiazza gli avversari perché mai, negli ultimi quarant’anni, il Parlamento britannico è stato chiuso per un periodo così lungo. Questa volta, infatti, anziché al ritorno dalla sosta estiva previsto per il 3 settembre, il discorso della Regina si terrà dopo un’ulteriore pausa di ben cinque settimane quando, in assenza dei tempi necessari alla discussione, la trattativa per la Brexit sarà già in dirittura d’arrivo, con i contraenti che potrebbero non aver trovato un’intesa. D’altra parte, il nuovo inquilino di Downing Street non ha mai escluso la possibilità di un’uscita senza accordo, la soluzione più temuta al di là della Manica.
La scelta di Johnson, giustificata come necessaria per accelerare il ritmo – a Westminster, ma anche a Bruxelles –, appare nei fatti come autoritaria e anti-democratica. Per questo, a pochi giorni dalla sua ufficializzazione, sono già più di un milione le firme raccolte al fine di evitare la sospensione del Parlamento. Sono diversi, inoltre, i ricorsi presentati in tribunale contro il discutibile Primo Ministro, persino da alcuni membri del suo stesso partito conservatore, da tempo in piena lotta clandestina. Su tutti, a scagliarsi contro il Salvini d’Inghilterra, Sir John Major, successore di Margaret Tatcher, avvalsosi anche lui della prorogation nel lontano 1997. In prima linea, però, resta la delegazione scozzese, da sempre avversa alla Brexit.
Già nel 2016, Edimburgo si è dichiarata sfavorevole all’uscita dall’U.E. con l’80% dei voti contrari in occasione del referendum. Da allora, ha spesso annunciato di non avere alcuna intenzione di applicare le eventuali nuove norme, rassicurando gli immigrati europei e minacciando una scissione dal Regno Unito, già proposta in precedenza e tuttavia bocciata. Quella di Nicola Sturgeon, però, la leader dell’SPN (Partito Nazionale Scozzese), nonché Primo Ministro di Scozia, sembra stavolta una battaglia ben più convinta che potrebbe ridefinire per sempre i confini in UK, complice anche una situazione irlandese ancora da chiarire.
Ma l’incertezza che sta travolgendo le Camere e le casse del Paese sta significando, inevitabilmente, anche incertezza per chi quelle terre le abita e ha imparato, nel tempo, a chiamarle casa. Terre da sempre proiettate all’esterno e, adesso, tendenti a un ermetismo tornato in voga a Ovest, eppure così spaventosamente anacronistico. Dagli anni Sessanta in poi, infatti, dalla mitica swinging London ai giorni nostri, il Regno Unito ha rappresentato un luogo di libertà e indipendenza, la meta più ambita dai giovani e da chiunque avesse voglia di reinventarsi totalmente. In particolare, il Big Ben si è fatto presto centro propulsore, motore inarrestabile di opportunità, progetti, diritti. Una crescita a dismisura che ha reso Londra capitale del mondo occidentale, accogliendo senza indugi sogni, speranze e disperazioni dei figli del capitalismo estremo di questi anni scellerati. Addirittura, nel 2016, è arrivata a essere la quinta città italiana più popolosa, mentre il Sud del Bel Paese si è desertificato senza sosta.
Lo storico espansionismo britannico, la colonizzazione spietata che ha visto il Regno Unito esportare guerra e violenza in moltissime nazioni, ha significato, in patria, un’ampia multiculturalità. Una mescolanza di etnie che ha fatto la fortuna della Union Jack, garantendole un ruolo centrale sullo scacchiere socio-economico e culturale del mondo, sostenuto anche da una solidità politica a lungo mai messa in discussione. La Brexit prima e l’insediamento di Johnson poi, invece, stanno rimescolando completamente le carte in tavola, scuotendo una stabilità che difficilmente riuscirà a restare integra. La stessa natura multirazziale e open-minded di UK viene adesso attaccata alle fondamenta, rischiando un crollo vertiginoso su stessa che non può non seminare panico e macerie.
Per questo, sebbene Queen reigns but does not rules, la Regina regna ma non governa, forse, per una volta, l’anziana padrona di casa di Buckingham Palace avrebbe dovuto riconsiderare il proprio ruolo e impedire una prassi che si muove per convenzione, opponendosi alla sospensione del Parlamento, consentendo alle Camere di votare con coscienza – quella mancata sin dalla formulazione di una possibile uscita dall’Unione Europea – e in modo meno rischioso la Brexit, espressione di una volontà popolare certamente scriteriata ma comunque tale.
Acconsentire, benché non ufficialmente, è pur sempre un atto politico. Uno di quelli che rompono il sogno britannico, spezzano le ali della libertà e alzano muri. Muri che, dagli Stati Uniti alla Gran Bretagna, senza dimenticare l’Ungheria, l’Austria e troppi altri Paesi del mondo, sono diventati l’obiettivo dei dittatori di oggi, a rischio anche – come nel caso dello United Kingdom – di doversi probabilmente rifondare del tutto. Per questo, la monarca avrebbe potuto cogliere l’occasione e farsi rivoluzionaria, difendendo una democrazia sempre più in bilico minacciata dal biondo slavato di un menzognero di professione. Sarà il colore di capelli o la crisi di mezza età ma, forse, la definizione migliore del Primo Ministro britannico l’hanno suggerita gli amici di Kotiomkin, una delle pagine più acute del web: Boris Johnson è il generico di Donald Trump. E l’Europa non può non tremare.