Vige una strana, infida logica nel nostro Paese: chiunque benefici di misure assistenziali – a prescindere da quale sia il motivo che lo costringe al sussidio – viene marchiato dall’onta della nullafacenza, persino etichettato come parassita. Opinione pubblica, stampa, finanche la politica, mirano al beneficiario della manovra mutualistica per espiare le colpe di istituzioni incapaci di offrire risposte e soluzioni alla crisi sociale, economica e lavorativa. Lo sfaccendato profittatore gode, dunque, dei sacrifici di chi, al contrario, dedica al proprio impiego gran parte della giornata, di chi per portare a casa un tozzo di pane bagnato dalla dignità del sudore rinuncia al tempo in famiglia così come ai propri diritti di lavoratore e di uomo.
La stessa dinamica, tuttavia, non viene applicata quando la prassi vede coinvolte le aziende, in particolar modo le multinazionali. Agevolazioni, prestiti garantiti dallo stesso soggetto erogatore che è lo Stato, ingenti sussidi a fondo perduto, addirittura leggi ad hoc per proteggerle dall’occhio della giustizia o per eludere le imposizioni tributarie. Di ciò, e molto altro, beneficiano continuamente le grandi imprese che in Italia fissano il loro domicilio operativo – non certo quello fiscale, sia chiaro, c’è sempre un indirizzo migliore a cui pagare le tasse –, pur non garantendo al Paese alcunché, specialmente in termini di impiego. Eppure, nessuno chiede mai loro merito.
Quanto appena descritto è ciò che accade sempre più di frequente sul suolo della nostra penisola, straordinariamente accogliente quando trattasi di partite IVA anziché di esseri umani, altrettanto inerme al momento di far valere la propria sovranità nei riguardi dei loro uffici. Quanto appena descritto è ciò che si sta manifestando con cadenza ancor più drammatica da quando lo sblocco dei licenziamenti previsto dal governo ha dato il via libera alle aziende a ridurre i numeri dei propri organici.
Il caso più rumoroso di questo, sì, vero ritorno alla normalità è quello che vede coinvolta l’azienda americana degli elettrodomestici con base a Napoli, la Whirlpool, pronta a lasciare a casa circa 350 operai, come già annunciato poco meno di un anno fa. Come scrivevamo appena lo scorso novembre, quello tra la multinazionale, i lavoratori, Napoli e il governo italiano è un contenzioso che si trascina da tempo, una storia fatta di annunci, scioperi, esuberi e resistenza che ha ultimato il suo giro così com’era purtroppo previsto e prevedibile, un esito a cui nessun esecutivo – passato e presente – è mai riuscito a porre rimedio, tantomeno a presentare una soluzione.
Ricorderanno, i più attenti, la farsa messa in piedi da Luigi Di Maio (allora Ministro del Lavoro), quando nel 2018 annunciava di aver trovato la soluzione a tutti i mali della ditta e, dunque, dei suoi operai. Ricorderanno, probabilmente, anche l’incentivo rivolto all’impresa al fine di scongiurare la crisi, un pacchetto di oltre 100 milioni di euro – tra taglio del costo del lavoro, fondo perduto, fondo per le crisi d’impresa, fiscalità di vantaggio e prestiti garantiti – che, a quanto pare, non è bastato a inchiodare la Whirlpool di fronte alle sue responsabilità e garantire la continuità del lavoro per i suoi dipendenti.
Lo Stato italiano non è riuscito, in oltre due anni, a imporre alla multinazionale il rispetto degli accordi firmati nel 2018, così, scaduto il termine previsto per arginare la crisi dovuta alla pandemia da COVID-19, l’azienda ha dato il benservito ai suoi lavoratori informando esclusivamente i sindacati e rinunciando anche alle tredici settimane di cassa integrazione che erano state disposte.
E poco importa se la produzione, e dunque il fatturato, della Whirlpool risultino triplicati nel corso dell’ultimo biennio: l’addio allo stabilimento di Napoli non è reversibile e nulla sembra potrà salvare il destino di quasi quattrocento famiglie, neppure il ridicolo accordo stilato qualche settimana fa tra governo, sindacati e Confindustria con il quale le parti sociali ci tenevano a far sapere di essersi impegnate a raccomandare di non licenziare. Oltre al danno, la beffa, la presa per i fondelli.
La risposta fornita da Whirpool sottolinea, con l’arroganza di chi sente di aver ben saldo il coltello dalla parte del manico, l’inettitudine di Stato e istituzioni: Risulta oggettivamente incompatibile con l’attuale situazione aziendale l’applicazione dei criteri di scelta all’intero organico aziendale, e ciò in considerazione dell’infungibilità dei dipendenti addetti a tale sito rispetto al personale collocato presso le altre sedi della società. […] I relativi dipendenti non possiedono le competenze tecniche necessarie all’esecuzione delle lavorazioni in essere presso gli altri stabilimenti della società senza l’attuazione di interventi formativi, organizzativi e logistici talmente costosi e complessi da compromettere l’efficiente svolgimento dell’attività aziendale.
Non c’è che dire, l’azienda ha centrato il punto nevralgico della questione, ciò su cui lo Stato dovrebbe intervenire con fermezza e, nel caso, far da garante: la formazione dei dipendenti alle nuove mansioni e l’eventuale riconversione sono le condizioni da cui la discussione non dovrebbe prescindere, gli obblighi a cui qualsiasi azienda dovrebbe non poter soprassedere quando opera su suolo italiano e rischia, in alternativa, ingenti licenziamenti. Imporre la continuità produttiva alla Whirlpool è un obbligo non solo morale, ma anche giuridico a cui Roma è tenuta a rispondere.
Così, quarant’anni di una mancata politica di tipo aziendale si abbattono, oggi, in maniera rovinosa sul sistema produttivo italiano, con la pandemia a scoperchiare un tappeto sotto il quale la polvere non si teneva già più. Il privato, in Italia, fa ciò che vuole, inutile girarci attorno con altre più eleganti parole: prende, incassa e scappa.
In questa grottesca situazione – come se non bastasse – gli operai Whirpool possono almeno vantare gli onori che offre loro la cronaca. Per oltre 350 impiegati che perdono il posto e godono della magra consolazione di raccontarlo ai giornali, migliaia di altri dipendenti sono stati liquidati nel silenzio assordante della stampa e della politica, dimenticati in favore del tappeto rosso da stendere a Confindustria che chiede il rimpiazzo dei vecchi operai in favore di nuova forza lavoro da sfruttare con i contratti di stage o a tempo determinato messi a disposizione dagli esecutivi alternatisi in questi anni.
Per non parlare di chi non ha potuto beneficiare del blocco dei licenziamenti perché assunto a nero e, dunque, gettato via nel vuoto alla prima occasione senza l’ausilio di un qualunque paracadute assistenziale. Così l’Italia – Repubblica fondata sul lavoro – dimentica la sua natura, la sconfessa, anzi persino la svende. Così la politica, finalmente unita, punta al reddito di cittadinanza per rifilargli le colpe di una crisi che ha radici lontane, in una commistione tra tutte le forze che ha reso libero soltanto il mercato.