È il 28 o, forse, il 29 gennaio del 2016. Nella stanza numero 13, al primo piano della sede della National Security de Il Cairo, Giulio Regeni sta per esalare uno dei suoi ultimi respiri. È mezzo nudo, la schiena arrossata, sul corpo smunto porta i segni delle torture che gli ufficiali egiziani gli stanno infliggendo da giorni. È steso a terra, il viso riverso, le mani bloccate, a pochi passi le catene di ferro con cui vengono legati gli stranieri sospettati di tramare contro la sicurezza nazionale. Blatera qualcosa nella sua lingua, delira. Sa che non ce la farà.
A raccontarne gli ultimi momenti, soltanto quattro anni dopo, è uno dei testimoni ascoltati dalla Procura di Roma che, finalmente, può chiudere le indagini. Epsilon – è questo il suo nome in codice – ha lavorato per almeno quindici anni in quell’edificio, ne conosce ogni agente, piano, stanza. Anche la numero 13, quella degli orrori, quella dove Giulio viene visto l’ultima volta. È la stanza delle torture e proprio di torture muore il giovane Regeni. Ad appena due chilometri dall’ambasciata italiana.
A ricostruire i nove giorni che vanno dalla sua scomparsa al ritrovamento del cadavere il 3 febbraio sulla strada che collega la capitale con Alessandria d’Egitto contribuisce anche un altro teste, colui che vede Giulio nelle ore immediatamente successive al presunto arresto. È il 25 gennaio nella stazione di polizia di Dokki. Sono le 20, al massimo le 21, quando Delta nota un ragazzo, ha tra i 27 e i 28 anni, barba corta, un pullover tra il blu e il grigio, indossa anche una camicia. Parla in italiano e chiede un avvocato. Ovviamente, non arriverà. È qui che si consuma la prima beffa sull’atroce vicenda legata allo studente friulano. Appena due giorni dopo, infatti, nello stesso commissariato si presentano Davide Boncivini, funzionario d’ambasciata, Noura Medhit Whaby, amica di Giulio, e Mohamed Al Sayyadf, il suo coinquilino. Non vedono Regeni da lunedì, da quando, cioè, un italiano ha attraversato quelle stanze scortato da quattro persone prima di essere bendato e trasferito a Lazoughly.
Alla National Security, dove morirà per insufficienza respiratoria acuta, Giulio subisce martiri e sevizie. Oggetti roventi, lame, bastoni. Acute sofferenze fisiche lo uccidono a poco a poco, per motivi abietti e futili, lo uccidono con crudeltà, in più occasioni e a distanza di giorni. Il suo sangue macchia le mani di uomini vicinissimi al governo egiziano: Tariq Sabir, Athar Kamel Mohamed Ibrahim, Uhsam Helmi e Magdi Ibrahim Abdelal Sharif. È loro che i PM romani, guidati dal sostituto procuratore Sergio Colaiocco, chiedono di mandare a processo, accusati di sequestro di persona pluriaggravato, concorso in omicidio aggravato e concorso in lesioni personali aggravate.
Sharif, in particolare, è l’uomo indicato come l’assassino di Giulio, il boia, l’aguzzino, il torturatore. Su di lui, oltre agli indizi dei contatti telefonici e ai rapporti con il sindacalista che ha denunciato Regeni alla National Security, pesano le parole di Gamma: «Ha cominciato a parlare di uno studente italiano, un dottorando, che stava cercando di fomentare un piccolo gruppo di persone al fine di avviare una rivoluzione… Affermava che questo italiano poteva essere un appartenente alla CIA, citò anche il Mossad. Continuava dicendo che loro avevano scoperto che era appartenente alla Fondazione Antipode, che spingeva per l’avvio di una rivoluzione in Egitto. A un certo punto loro ne avevano avuto abbastanza». Da quel certo punto, per Giulio, iniziano i pedinamenti, poi il sequestro, infine la scomparsa. «Sembra che gli sia passato in faccia tutto l’orrore del mondo», commenterà la madre più tardi.
Gli 007 hanno ora venti giorni di tempo per presentare memorie, documenti ed eventualmente chiedere di essere ascoltati ma, al momento, sono tutti irreperibili, protetti dalle autorità egiziane che hanno lavorato a innumerevoli depistaggi senza mai rispondere alla richiesta di consegna delle persone iscritte nel registro degli indagati presentata dall’Italia ormai un anno fa. Un anno che, al contrario di quanto sarebbe stato auspicabile – e normale –, ha visto consolidarsi i rapporti proprio tra il nostro Paese e l’Egitto di Al-Sisi. Basti pensare al via libera dello scorso giugno alla vendita a Il Cairo di due navi della marina militare per un valore stimato di circa 1.2 miliardi. Un affare, parte di una commessa ancora più ampia – l’introito si aggirerebbe tra i 9 e gli 11 miliardi di euro –, che i Regeni hanno bollato come un tradimento, stanchi ormai di una politica che investe sul sospetto, sul disinteresse generale, sull’oblio. Persino adesso che, nero su bianco, sappiamo di uno Stato assassino cui l’Italia e l’Europa continuano a rifornire di armi, ad accogliere come Paese amico. Ma di amici ci sono solo i complici della morte di un ragazzo ammazzato senza pietà. Quei complici hanno giurato sulla nostra Costituzione. Quei complici continuano a latitare.
Da giovedì, da quando cioè la Procura capitolina ha chiuso le indagini, non sono ancora arrivati commenti ufficiali, prese di posizioni da parte del governo come dell’opposizione. Sono gli stessi genitori di Giulio a puntare il dito contro le istituzioni, in particolare contro Giuseppe Conte e Luigi Di Maio: «Cosa state facendo per la verità?». «I diritti umani non sono negoziabili con petrolio, armi e soldi – ha dichiarato l’avvocato Alessandra Ballerini – E questo ce lo dimostra la famiglia Regeni. Vorremmo la stessa fermezza e abnegazione da parte di chi ci governa, affinché dimostrino che la giustizia non è barattabile». Barattabile, invece, è parsa proprio la vita di Giulio e, in tempi più recenti, quella di Patrick Zaki che sempre in Egitto è recluso da mesi senza alcun motivo.
Ha ragione mamma Paola, dunque, quando chiede che si faccia luce su quelle che suo marito chiama zone grigie: «Cosa è successo nei Palazzi italiani da quel 25 gennaio al 3 febbraio? Come mai Giulio, un cittadino italiano, non è stato salvato in un Paese che era amico e che continua a essere amico? Chiedete al Premier Conte e al Ministro degli Esteri Luigi Di Maio cosa stanno facendo per Giulio». L’ultima telefonata tra il Presidente del Consiglio e Al-Sisi è datata fine novembre, i rapporti tra la famiglia e il governo, invece, sono fermi all’ottobre del 2019.
Da sempre il problema Regeni, come lo chiama Matteo Salvini, non è una preoccupazione dei rappresentati italiani a Palazzo Chigi e di poltrone, da quelle parti, se ne sono alternate tante. L’unica a mostrare una certa vicinanza, in tutti questi anni, è stata soltanto quella di Roberto Fico, il solo a parlare anche in questa occasione per sottolineare la debolezza del sistema europeo e la necessità di collaborazione da parte delle autorità italiane ed egiziane, chiamando in causa anche la Francia. In ordine cronologico, infatti, l’ultimo ad aver ricevuto Al-Sisi è stato Emmanuel Macron che lo ha accolto a Parigi in un incontro in cui si è parlato di tutto tranne che di diritti umani. Addirittura ha scelto di conferirgli la Legion d’onore, una notizia che l’Eliseo si è ben guardato dal divulgare.
L’Egitto, per l’Europa, è un importante partner commerciale e nessuno, a partire dall’Italia – che ha visto le sue commesse passare dai 10 milioni di euro annui del 2016 agli 800 del 2019 – ha intenzione di incrinare i rapporti con quello che Donald Trump ha definito il suo dittatore preferito. Ed è proprio per testare la lealtà USA – scrive il New York Times – che la sera del 3 dicembre alcuni prigionieri sono stati rilasciati da Tora, il carcere in cui resterà Zaki per almeno altri quarantacinque giorni. Per loro si erano mobilitate varie organizzazioni internazionali e personalità celebri, come Scarlett Johansson, il cui appello aveva fatto il giro del mondo.
L’arresto dei tre era seguito all’incontro con diversi diplomatici europei per denunciare l’escalation delle persecuzioni del governo egiziano e chiedere la liberazione dei tanti detenuti innocenti. Incontro durante il quale era stato presente anche l’ambasciatore italiano che la famiglia Regeni chiede da tempo di ritirare, una mossa che per Luigi Di Maio si rivelerebbe fuorviante. Perché non è dato saperlo. Affatto ambiguo, invece, si conferma l’atteggiamento nostrano e dell’Europa tutta, quella che vanta uno spessore morale di cui spesso sembra dimenticare, quella fondata sui diritti umani che persino sul suo territorio continuano a essere non così raramente negati.
Eppure, la lotta per Giulio, così come quella per Patrick e per i tanti nemici di Al-Sisi, è una lotta di civiltà. Una lotta per i diritti umani. E si dovesse arrivare alla vittoria, nessuno – se non la sua famiglia, se non la scorta mediatica che, sempre, le è stata accanto – dovrà attribuirsene la paternità. Nessuno potrà cannibalizzarne la figura. La figura di un giovane che, forse, è morto anche per noi.