Sulle conseguenze economiche di questa emergenza sanitaria mi sono più volte soffermato, evidenziando quelle che non sono le motivazioni di una crisi profonda legata unicamente al particolare momento che stiamo vivendo. La pandemia, che da alcuni mesi ha travolto la vita del mondo intero, ha infatti sconvolto un sistema già basato su regole precise di mercato, di un consumismo sfrenato che ha prodotto disuguaglianze e ingiustizie, fino a consegnare ricchezza e potere in pochissime mani a discapito di una maggioranza comunque divisa in ogni sorta di egoismi.
Una pandemia che nel tempo – ci auguriamo già nell’arco del prossimo anno – inizierà a scemare evidenziando, purtroppo, altre problematiche di carattere medico che andranno inevitabilmente ad acuirsi dopo essere state trascurate nel lungo periodo emergenziale. Il sistema sanitario nazionale, come noto ritenuto tra i migliori al mondo, dovrà quindi riorganizzarsi, colmare lacune e inefficienze dovute a un’attenzione spasmodica al contenimento dei costi che ha generato carenza di personale a tutti i livelli e anche un’evidente incapacità delle Regioni a valutare e gestire un comparto che dovrà necessariamente tornare allo Stato centrale, in capo al Ministero della Salute, per una sanità veramente pubblica che funzioni senza dipendere dalle bizze dei Presidenti regionali o dall’incompetenza di qualche assessore.
Come già accennato, inoltre, le conseguenze di questa emergenza che ancora stiamo vivendo e che condiziona le nostre vite rappresentano già da ora un vero e proprio tsunami che sta travolgendo interi settori produttivi sostenuti da una politica di ristori, probabilmente poco mirata ma pur sempre soddisfacente per tante categorie comunque perennemente insoddisfatte, mentre troppi sono ancora i lavoratori invisibili senza sostentamento alcuno. Vite sospese, legate alla speranza di un ritorno alla normalità, di una ripresa del sistema che farà fatica a ripristinare lo stato precedente, alle città che dovranno avere una capacità attrattiva nuova per rimettere in circolo il turismo, lì dove le sole bellezze del patrimonio artistico e culturale non basteranno a far ripartire una macchina già in sofferenza, con l’esclusione di quei centri che nel 2019 hanno incrementato le presenze dei visitatori. Come Napoli, che ha visto il 13.6% di turisti in più rispetto all’anno precedente, per un totale di 3.7 milioni di persone e il fiorire di tantissime attività che hanno dato ampio respiro a una forza lavoro atavicamente precaria, una condizione che ha in qualche modo sopperito a quell’arte di arrangiarsi ritenuta da sempre caratteristica positiva degli italiani di reagire alle emergenze e che al Sud – in particolare nella nostra città – è divenuta ormai cronica condizione che, pur non assicurando prospettive, consente almeno un minimo di sopravvivenza.
I dati ISTAT del 2018 riferiti al periodo 2009/2017 riportano un aumento considerevole della povertà – intesa come impossibilità di acquistare beni e servizi essenziali per uno standard di vita minimamente accettabile –, passata a riguardare dai tre ai cinque milioni di persone e di cui quest’anno, secondo il rapporto della Caritas, sembra profilarsi un notevole incremento che vedrà il dato raddoppiato rispetto al 2008. Già nel secondo trimestre si evidenzia una marcata flessione del PIL e dell’occupazione di circa 841mila unità rispetto all’anno precedente, mentre si registra un aumento progressivo di quanti si presentano per la prima volta alle mense e ai centri di ascolto.
Nuove povertà, altre condizioni di estremo disagio di famiglie con minori, persone in età lavorativa, nuclei familiari in rottura, uomini e donne con problemi di dipendenza in stato avanzato depressivo, migranti in cerca di un minimo di stabilità. Occorre intercettare le cause della povertà e lottare contro di esse, la disuguaglianza, la mancanza di lavoro, della casa, la negazione dei diritti sociali e lavorativi. Se non si parte da qui, come opportunamente sostiene Papa Francesco, si è destinati a prendere atto anno per anno dell’aumento esponenziale dei poveri e dei tanti altri che questa crisi già sta impoverendo nelle tante nuove periferie delle nostre città, nelle tante famiglie silenziose che dignitosamente riescono a garantirsi una qualche sopravvivenza.
E i nostri giovani? Quale la condizione di una generazione che troppo superficialmente e sbrigativamente si ama raccontare per quella sola parte che in tutta Europa – ma che l’Italia vanta in numero maggiore – non studia, non lavora e non partecipa ai corsi di formazione, quella fascia di età tra i venti e i ventiquattro anni, fenomeno anche se in leggero calo, che pur sempre avrà le sue motivazioni? Un’intera generazione che fa fatica a trovare una collocazione lavorativa e che, ove mai la trovi, è condizionata dai ricatti di mediocri imprenditori senza scrupoli e alcuna prospettiva di crescita. Giovani privati di tutto, anche del diritto di sognare, di tentare una realizzazione fuori dai propri confini, Paesi improvvisamente divenuti gabbie senza possibilità di accesso non solo per gli effetti dell’emergenza sanitaria, ma per regole sempre più stringenti che hanno nuovamente ridisegnato un mondo con limitazioni di ogni sorta.
Occorre una nuova classe dirigente, competente e capace di intercettare le anomalie di un sistema arrivato al capolinea, di ascoltare le forze migliori del Paese fuori dai soliti circuiti di una politica mediocre, malata, inadeguata e corrotta; un Parlamento di eletti non condannati, imputati, indagati o prescritti, che eserciti a pieno le sue funzioni; un governo che ponga come priorità assoluta il lavoro, la giustizia, l’istruzione e la sanità, presupposti essenziali per sconfiggere la povertà nei fatti e non annunciandola euforicamente da un balcone, lavorando per il Paese e in special modo per quanti senza occupazione, reclusi in penitenziari indegni, per una giustizia giusta, un’istruzione di eccellenza garantita a tutti, per una gestione della sanità degna di uno Stato civile.