Il licenziatore è stato licenziato, Donald Trump è – finalmente – uscito sconfitto dalla tornata elettorale valida per eleggere il 46esimo Presidente della storia degli Stati Uniti d’America. A succedergli, alla guida della Casa Bianca, sarà dunque Joe Biden, una vittoria netta e convincente del partito democratico che (in tutta probabilità) chiuderà la partita assicurandosi 306 grandi elettori e il primato del candidato più votato di sempre con oltre 78 milioni di preferenze.
Il modello della grande nazione isolazionista e liberal-conservatrice voluto dal Tycoon è stato piegato dalle rivendicazioni di quei diritti che Trump – durante il suo unico mandato – non solo non ha mai accolto ma, addirittura, ha perseguitato con violenza comunicativa e giustificando quella fisica dei suoi sostenitori. La componente socialista del Democratic Party ha, quindi, giocato un ruolo fondamentale nel ritorno di Biden a Washington, riuscendo a intercettare le istanze delle componenti femministe, LGBTQ+, afroamericane e ispaniche, anche grazie all’apporto fondamentale offerto da candidati come Bernie Sanders e Alexandria Ocasio-Cortez.
Le grandi movimentazioni popolari scatenatesi nelle città americane – in particolar modo nel corso dell’ultimo anno – hanno fatto da vero ago della bilancia di un voto dal valore storico, un voto che si presentava come uno spartiacque tra un mondo arreso al populismo, al nazionalismo, alla paura, e città ancora desiderose di democrazia, uguaglianza sociale e libertà. In concreto, il duro scontro tra le folle unite al grido di Black Live Matters e la polizia a stelle e strisce ha acceso le coscienze di quanti all’election day, ormai, si disinteressavano, e ha spinto la comunità nera (e chi ne appoggiava le mobilitazioni) a pretendere un cambio alla guida, un altro modo di garantire giustizia, indipendentemente da sesso, razza o religione.
L’America che l’imprenditore newyorkese voleva great again è stata – di fatto – una white male America, una terra in cui hanno riconquistato spazio i suprematisti bianchi, il KKK, i negazionisti di QAnon, protetti e talvolta persino benedetti dalle dichiarazioni della chioma arancione di casa a Washington, spesso troglodita e violenta nei riguardi di donne e comunità afro. Una guerra ai diritti mossa da Trump anche contro i rappresentanti del mondo del cinema e dello sport, mai come prima schierati contro il fantoccio che licenziava apprendisti in favore di telecamera.
Tirare fuori Donald Trump dalla Casa bianca è stato lo scopo attorno al quale si sono stretti i principali movimenti collettivi del Paese, il primo e necessario step per ricostruire un’uguaglianza sociale ed economica di uno Stato profondamente diviso, spaccato a metà tra grandi imprenditori e sobborghi affamati, tra Google e gli operai della Pennsylvania, tornati a guardare a “sinistra” dopo aver svenduto la propria fiducia all’ormai ex Presidente, stremati dal liberismo sdoganato proprio dalle amministrazioni colorate di blu.
Non va nascosto, infatti, che le politiche democratiche (anche quella targata Obama-Biden) sono state le principali alleate dell’economia a vantaggio di una libertà di circolazione concessa solo ai pacchi di Amazon e alle transazioni finanziarie, un modello che ha comprato i diritti di sanità, istruzione e assistenza, rivendendole al popolo come servizi, un modello di dittatura imposta dalle regole del mercato, anche militarmente, dal momento che il 46esimo Presidente eletto ha sostenuto la guerra in Iraq voluta da Obama.
In uno scacchiere che resta in bilico, Joe Biden avrà il dovere di rivedere il programma di accesso alla sanità per tutti i cittadini statunitensi, dovrà ridiscutere con gli operai il salario minimo e le garanzie lavorative legate alla sicurezza e alla stabilità dei posti di impiego, sarà chiamato a dare ascolto all’onda verde dei Fridays For Future, incoraggiando la conversione di buona parte dell’industria a stelle e strisce verso le energie sostenibili. Ancor più urgente, l’ex vice di Obama avrà il compito di avvicinare le megalopoli che brillano sulle due coste all’America vera, una terra di deserto e disuguaglianze che si staglia dall’Atlantico al Pacifico, un mondo di sterminata povertà e disuguaglianze razziali, con il ruolo della polizia da limitare a quello di corpo di difesa, dimostrando di saper punire gli abusi.
C’è una frase che gira sui social e che anche Roberto Saviano ha ripreso per raccontare gli Stati Uniti: sono il Paese del terzo mondo più ricco e potente del pianeta. Compito di Joe Biden sarà non sciupare l’entusiasmo e la felicità di milioni di americani (e non solo) che oggi festeggiano la sua elezione e – soprattutto – la cacciata di Trump. Tradire le danze di gioia e vicinanza che sembrano poter riunire un mondo spaccato dall’odio sarebbe un delitto non più perdonabile, soffocare la voce piena della componente socialista della sua maggioranza non dovrà essere consentito all’establishment di cui è sempre stato – e tuttora è – il rappresentante.
A tal proposito, giocherà un ruolo non di sola rappresentanza l’elezione di Kamala Harris nei panni di Vicepresidente, una chiamata storica per la prima donna alla Casa Bianca. La senatrice della California dovrà dimostrare di non essere stata scelta unicamente per dare forza all’immagine conciliante di Biden. Harris avrà il compito di affermare a livello nazionale quanto di buono ha saputo imporre tra i confini del proprio Stato di provenienza, come la dura persecuzione dei reati ambientali o di tipo sessuale. La nativa di Oakland (figlia di madre immigrata indiana e padre di origini giamaicane) sarà un punto di riferimento anche per la comunità gay, già difesa in California, e per le minoranze che chiedono a gran voce il riconoscimento dei propri diritti.
Il futuro è tutto da immaginare e, per il momento, sembra già una grande occasione per desiderare di tornare ad abbracciarsi. Welcome, Mr. President!