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Stefano Cucchi: la paura della verità

Mariaconsiglia Flavia Fedele di Mariaconsiglia Flavia Fedele
10 Maggio 2018
in Il Fatto
Tempo di lettura: 4 minuti
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Stefano Cucchi lo hanno ammazzato. Non una, ma più e più volte. Lo ha ammazzato uno Stato che non ha saputo tutelarlo, chi non ha creduto a quei lividi piuttosto evidenti, chi dinanzi alle immagini di un corpo così devastato ha pensato che la morte fosse la giusta punizione per un delinquente. Lo ha ammazzato chi ha parlato di epilessia, chi ha assolto i medici rei di aver colposamente omesso la sindrome da inanizione, chi ha annullato la sentenza – per poi riaprirne una – il giorno prima della prescrizione. Lo ha ammazzato un’Arma che spesso, troppo spesso, dimentica l’onore.

Il prossimo 22 ottobre saranno trascorsi esattamente dieci anni da quella tragica data, dal giorno in cui Stefano ha smesso di respirare al Sandro Pertini di Roma. Dieci anni di bugie, coperture, versioni ufficiali e smentite, di ricordi che riaffiorano e altri che scompaiono. Dieci anni dal momento in cui sua sorella Ilaria ha dato inizio a una battaglia senza eguali che deve portare alla verità, fosse anche tra un altro decennio. Intanto, il 15 maggio, all’appuntato scelto Riccardo Casamassima toccherà tornare dinanzi ai giudici per confermare le accuse da lui lanciate nel 2015 quando a Giovanni Musarò, il Pubblico Ministero che coordina l’indagine bis sul decesso di Cucchi, rivelò quanto aveva sentito nel lontano 2009.

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Casamassima, infatti, dichiarò che, poco dopo l’arresto del geometra romano – scoperto con ventotto grammi di hashish e qualche grammo di cocaina –, un suo collega, il maresciallo Roberto Mandolini – all’epoca dei fatti a capo della stazione Appia –, si era recato a Tor Vergata, dove in precedenza aveva prestato servizio, facendo menzione dell’episodio riguardante il giovane fermato: «È successo un casino, ragazzi, hanno massacrato di botte un arrestato». Al comandante Enrico Mastronardi avrebbe, poi, fatto anche il nome di Cucchi, mentre il figlio del comandante, Sabatino, gli avrebbe confessato: «Guarda, non si sono proprio regolati con l’arrestato. Non ho mai visto una persona massacrata di botte così». Parole, quelle dell’appuntato, che riaprirono le indagini e portarono il maresciallo e i carabinieri Vincenzo Nicolardi e Francesco Tedesco all’accusa di calunnia nei confronti degli agenti della penitenziaria (i primi a essere indagati con medici e infermieri) e di falso nella compilazione del verbale al momento del fermo. Lo stesso Francesco Tedesco, tra l’altro, – imputato insieme ad Alessio Di Bernardo e Raffaele D’Alessandro – che risponde adesso di omicidio preterintenzionale ma è prescritto per abuso d’autorità.

Come testimoniato recentemente dagli agenti Francesco Di Sano e Gianluca Colicchio, inoltre, in seguito al decesso di Stefano vennero chieste due relazioni sulla vicenda. Documenti modificati, a quanto pare, per ordine dei superiori perché troppo dettagliati. Nel primo di essi, infatti, si legge che Cucchi, all’indomani dall’arresto, riferiva di avere dei dolori al costato e tremore dovuto al freddo e di non poter camminare, al punto da farsi aiutare dagli agenti per raggiungere l’aula del tribunale al fine di accertare la convalida del suo stato di fermo. Nella seconda versione, invece, si evince che il ragazzo era dolorante alle ossa sia per la temperatura freddo/umida che per la rigidità della tavola del letto. Nessun dolore, dunque. Nel corso dell’ultima udienza, poi, Colicchio ha anche sostenuto di ricordare perfettamente di aver scritto che Stefano dichiarava di avere forti dolori al capo, giramenti di testa, tremore e di soffrire di epilessia, ma di non riconoscere come suo l’appunto (riportante uguale data e numero di protocollo, nonché la firma del piantone) in cui si precisa che l’arrestato dichiara di soffrire di epilessia, manifestando uno stato di malessere generale verosimilmente attribuito al suo stato di tossicodipendenza e lamentandosi del freddo e della scomodità della branda in acciaio. Due dichiarazioni, quelle al vaglio degli inquirenti, che presentano quindi un’importante anomalia: lo stesso codice informatico. Per Di Sano, in servizio a Tor Sapienza nel 2009 insieme al collega, un episodio a dir poco singolare, in teoria impossibile. 

Le esternazioni dei due agenti, quindi, sono andate in questi mesi ad aggiungersi alle precedenti di Riccardo Casamassima, vittima, da quando ha parlato, di violenze verbali da parte di altri carabinieri e di numerosi provvedimenti disciplinari, tra cui dieci giorni di consegna. Per questo, forse, appena poche ore fa, ai colleghi de Il Fatto Quotidiano, l’appuntato si è detto spaventato in vista del prossimo ritorno in aula. Difficile non capirne le motivazioni: «Sono andato dal pm anche perché dal Presidente del Senato in poi tutte le più alte cariche dello Stato dicevano: chi sa deve parlare. Noi abbiamo parlato ma siamo diventati carne da macello». Proprio come Stefano quel giorno di ottobre di quasi dieci anni fa.

Manca poco meno di una settimana a un nuovo capitolo di una vicenda infinita. Forse, la storia si farà più chiara o, forse, più disgustosa di quanto non lo sia già. Quando, però, anche un uomo con la divisa si dice spaventato da essa, la fiducia che in questo Paese qualcosa possa cambiare diventa ancora più flebile, soprattutto per noi comuni cittadini. Quel che resta certo, tuttavia, è che Cucchi non è stata la prima e non sarà l’ultima vittima di un sistema malato chiamato Italia.

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