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Sicilia: la sconosciuta Valle dei tumori tra Agrigento e Caltanissetta

Mariaconsiglia Flavia Fedele di Mariaconsiglia Flavia Fedele
25 Settembre 2020
in Il Fatto
Tempo di lettura: 4 minuti
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Lo chiamano il Vallone o Valle dei tumori ed è quella porzione di mondo che si estende tra Agrigento e Caltanissetta, un’area che un tempo era Sicilia e oggi è emigrazione e malattia. Non è poi raro, quando si parla di Sud, che le due parole siano così strettamente correlate, intrecciate tra loro come se, sole, perdessero di senso o efficacia. Eppure, non c’è partenza, dal Mezzogiorno di Italia, che non significhi sopravvivenza. Non c’è partenza che non implichi fuga da disoccupazione, malavita o cancro. La ricerca disperata di un’opportunità come unica via di uscita. È sempre così da noi, e lo è anche in Sicilia, la punta di uno stivale rotto ma senza ciabattino.

La zona che va da Campofranco a Milena, Sutera e Mussomeli non è – nella narrazione massmediatica – la campana Terra dei Fuochi, tantomeno la tarantina ILVA, ciononostante registra un’incidenza tumorale che supera le stime del 43%. Una percentuale che aumenta se si considerano le neoplasie ematologiche (108%) e quelle del polmone (69%). «Ogni famiglia, qui, ha almeno un caso di morte per tumore», denunciano i ragazzi che hanno scelto di restare nella speranza, attiva, di cambiare le cose. Insieme hanno costituito comitati e associazioni, con l’aiuto dei pochi rimasti a popolare l’entroterra siciliano raccolgono fondi per fare ricerca e scoprire ciò che le istituzioni tacciono da sempre. Come Emanuele Quarta, fondatore di Basta Tumori, che a Campofranco ha misurato il livello di radioattività – ben al di sopra della soglia di attenzione (0.790 microsiviert) – nei pressi dell’ex Montecatini, poi Montedison, oggi un ecomostro di ferro e amianto abbandonato a se stesso, al tempo e all’incuria di chi non ha alcun interesse a smantellare un mattatoio di circa 30mila metri quadrati. Paradise ha inciso qualcuno sul muro a pochi passi, verso la stazione. Una strana beffa del destino.

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Nella classifica sulla qualità della vita stilata lo scorso anno da Il Sole 24 Ore, la provincia di Caltanissetta, cui si rifà anche Campofranco, è in ultima posizione. Un risultato che, stando a quanto (non) si racconta della Sicilia, non pare sorprendere più di tanto. Così come non sorprendono le primissime posizioni di Milano, Bolzano o Trento. Tutte città del Nord, tutte città in cui si investe e non si negano servizi o infrastrutture. Ma se chiedete all’italiano medio, risponderà che è colpa della gente, e soltanto della gente, se il fondo della graduatoria se lo contendono da Napoli in giù. Non delle mafie in doppio petto che guadagnano al Nord e riciclano al Sud, ma dell’omertà di chi, spesso, nemmeno sospetta cosa succede sotto i propri occhi.

In quella che un tempo era una zona di fabbriche e miniere come la Cozzo-Disi, dove nel 1916 si consumò una delle più grandi tragedie minerarie della storia di Italia, oggi non ci sono più industrie, sindacati o carovane di operai che si apprestano a un nuovo turno. Ci sono soltanto rovine e rifiuti, discariche di domande senza risposta. Come a Serradifalco, 5mila anime e 4 milioni di metri cubi di scarti di sali potassici che a ogni pioggia salano i torrenti circostanti. Nemmeno più i pesci passano di là. L’amianto della miniera Bosco smantellata nel Natale del 1985, invece, a discapito di tutte le promesse della politica che si è alternata negli anni, resta esattamente dov’era. E con esso lo spettro dei tumori e la paura di non saperne abbastanza.

Non bastano, infatti, i tre funzionari regionali a processo e la loro più che probabile prescrizione per la mancata bonifica. Quello che è un timore, per chi vive nei paesi limitrofi, sembra più una certezza, la conferma – data anche da Leonardo Messina, collaboratore di giustizia – che nella cava ci sia tanto altro: rifiuti medici, come attestano le ricevute trovate sul posto – alcune provenienti dall’Emilia-Romagna, a proposito delle colpe di cui sopra – e chissà cos’altro di irraggiungibile e sconosciuto, seppellito a più di 12 chilometri di profondità. Intanto, non smettono di essere seppellite nemmeno le vittime di quest’ennesimo omicidio di Stato quando non riescono a fuggire. Sono almeno 73mila, infatti, i nisseni che abitano all’estero o al di fuori dei confini regionali. Siciliani impossibilitati a vivere la propria terra, rifugiati di una guerra silenziosa, migranti al pari di quanti proprio in Sicilia sbarcano e, talvolta, la ripopolano. Isolani senza isola.

Come ad Acquaviva-Platani, meno di mille abitanti e un’età media superiore ai 50 anni. Il fiume che bagna il paese trasporta plastica e rifiuti di ogni genere, lì dove Dedalo tentò la fuga da Minosse e oggi, forse, incontrerebbe morte certa. Come a Gela, dove il connubio emigrazione-malattia si ripropone impietoso dal 2014, quando il polo petrolchimico voluto da Enrico Mattei è stato definitivamente chiuso in attesa di essere riconvertito. Nel frattempo, nei neonati tra il 2010 e il 2015 si conta un aumento del 50% delle malformazioni, ma anche questa è cosa da niente: la medicina chiama, la politica non risponde.

È all’intera Sicilia, in fondo, che non risponde mai nessuno. Una terra straordinaria e sola, eternamente in bilico tra La piovra e Montalbano, tra arancine e arancini, tra Pozzallo e Lampedusa. Lì, dove nella narrazione quotidiana nasce e finisce, perché gli sbarchi fanno rumore, ma le partenze vanno taciute. E va taciuto anche cosa succede o cosa manca nella regione in cui i funerali superano di gran lunga i battesimi, in cui ogni città è isola a sé, senza strade interne e collegamenti esterni – che quando ci sono, se li possono permettere in pochi. Come la Statale 640, quella che unisce Agrigento e Caltanissetta, il Vallone o la Valle dei tumori, iniziata quasi dieci anni fa e inaugurata almeno quattro volte da quattro governi diversi, finita sotto inchiesta come tantissime altre opere pubbliche. La chiamano la Strada degli Scrittori perché intende unire Pirandello a Tomasi di Lampedusa, Sciascia a Camilleri. Penne eccellenti che hanno ridisegnato i contorni di una terra bellissima e maledetta. Troppo italiana, forse, per non esserlo. Poco italiana, forse, per accorgersi che sta morendo. E nemmeno lentamente.

Prec.

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