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Calo demografico senza precedenti: in Italia più funerali che nascite

Mariaconsiglia Flavia Fedele di Mariaconsiglia Flavia Fedele
10 Luglio 2021
in Attualità
Tempo di lettura: 5 minuti
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È un calo demografico senza precedenti quello segnalato dall’ISTAT nel suo ultimo bilancio. Secondo i dati diffusi lo scorso 3 luglio dall’Istituto Nazionale di Statistica, infatti, nel 2018 all’anagrafe sono stati registrati 439747 bambini, vale a dire 18mila in meno rispetto al 2017. In appena dodici mesi, dunque, l’arrivo dei nuovi nati si è ridotto del 4%, segnando un ulteriore minimo storico dall’Unità d’Italia.

Quello dei fiocchi colorati ad abbellire i portoni dei palazzi, infatti, è un calo in atto già dal 2008, anno con cui si identifica l’inizio della crisi economica che sta caratterizzando il nuovo millennio. Una cifra che dal 2015 è scesa, per la prima volta, sotto il mezzo milione. La drastica riduzione di nascite nel Bel Paese, dunque, sembra ormai aver raggiunto caratteristiche strutturali ben definite, destinate a raccontare, ancora e a lungo, il futuro di un territorio che invecchia senza un vero ricambio generazionale. Le motivazioni, ovviamente, sono molteplici e riguardano l’intero Stivale, in particolare il Centro, dove si evince una diminuzione più accentuata con il 5.1% di parti in meno rispetto al 2017.

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Prima tra le cause risulta la progressiva riduzione delle potenziali madri, determinata innanzitutto dall’esaurirsi dell’età riproduttiva femminile. Stando ai dati del febbraio dello scorso anno, infatti, dal 2008 le generazioni che vanno dai 15 ai 50 anni risultano in un numero inferiore di 900mila unità, di cui più di 200mila in meno soltanto nell’ultimo biennio. Coloro che scelgono di diventare mamme, inoltre, sono sempre più adulte, stabilendosi in una fascia d’età che si muove dai 33.8 anni di un decennio fa ai 35.2 del 2018. L’orologio biologico, dunque, si è rapidamente spostato in avanti, riducendo il tempo a disposizione per procreare e innalzando vertiginosamente l’età del parto intorno ai 31.8 anni, con tutti i rischi che l’aumentare delle pagine di calendario già staccate implica.

Altre motivazioni che svuotano le culle, però, vanno ricercate nell’indeterminatezza dell’era contemporanea, principale fonte di insicurezze che oscillano dal precariato alla disoccupazione, all’imprevedibilità di un futuro sempre più inimmaginabile, in primo luogo per le donne che ancora faticano ad avere riconoscimenti egualitari in termini di diritti e di salario, insomma quelle pari opportunità tanto decantate quanto, nei fatti, sin troppo spesso inesistenti. Non molta differenza, invece, c’è nella scelta di ragazzi e ragazze di lasciare la famiglia di origine sempre più tardi, sperimentando, rispetto alle generazioni che li hanno preceduti, percorsi di vita drasticamente frammentati che dislocano le tappe principali della loro indipendenza economica e familiare, spesso cercata in luoghi diversi dai propri natali e fuori dai confini nazionali (l’85% degli emigrati si muove in UE, per la maggiore nel Regno Unito).

In particolare, a dominare la classifica degli espatriati, in Italia come all’estero, sono due regioni molto distanti tra loro: la Lombardia che, secondo l’ISTAT, ha ceduto ad altri Paesi più risorse qualificate (-24mila giovani residenti) e la Sicilia (-13mila). A ruota, seguono il Veneto (-12mila), il Lazio (-11mila) e la Campania (-10mila). Tuttavia, precisa l’Istituto Nazionale di Statistica, considerando congiuntamente le migrazioni con l’estero e quelle interregionali, le regioni del Centro-Nord, e in particolare la Lombardia e l’Emilia Romagna, mantengono dei saldi totali positivi mentre le regioni del Mezzogiorno mostrano saldi totali negativi. Nulla che non fosse già preventivabile.

A destare maggiore preoccupazione, non a caso, resta l’isola sicula che, per la prima volta, ha un numero di abitanti al di sotto dei 5 milioni (per un totale di 27mila in meno rispetto all’inizio dello scorso anno). Un numero decisamente troppo piccolo e per nulla trascurabile dovuto, appunto, al troppo alto tasso di emigrazione e al troppo basso tasso di natalità. Nello specifico, da circa un decennio la patria dei cannoli sta vedendo più funerali che nascite: i bambini nati in Sicilia nei dodici mesi in analisi sono stati 40649, con un saldo di 11334 rispetto ai defunti dello stesso periodo. In compenso, ad aiutare la sopravvivenza della popolazione siciliana pensano gli immigrati (4%) con 6 nuovi nati su 100 che non sono di origine italiana. L’isola, tuttavia, è una delle regioni con meno stranieri, seguita soltanto da Sardegna e Puglia.

La scarsa natalità che caratterizza lo Stivale, quindi, va spiegata anche – e, forse, soprattutto – analizzando un altro dato per nulla marginale: la riduzione, costante dal 2015, della popolazione abitante l’Italia. Al 31 dicembre 2018, infatti, i cittadini sul territorio nazionale ammontavano a 60 milioni 359546 residenti, vale a dire 124mila unità in meno rispetto all’anno precedente (-0.2%) e 400mila rispetto a quattro anni prima. Il calo, spiega l’ISTAT, è del tutto ascrivibile alla popolazione italiana la quale, sempre in riferimento all’ultimo giorno del 2018, è scesa a 55 milioni 104mila, per un totale di 235mila individui in meno del 2017 (-0.4%). Come se non bastasse, rispetto alla stessa data del 2014, tale perdita risulta pari alla scomparsa di una città grande come Palermo (-677 mila). Una statistica aberrante.

Se si considera inoltre che negli ultimi quattro anni i nuovi figli del tricolore, quelli che hanno acquisito la cittadinanza, sono stati oltre 638mila, si comprende ancor di più e con più terrore l’imponenza di questi numeri: senza l’apporto degli stranieri – in barba alle sostituzioni etniche che lasciamo alla politica stupida e di propaganda – il calo degli italiani sarebbe stato di circa 1 milione e 300 mila unità, come se, in uno schiocco di dita, l’intera Milano fosse scomparsa. Per fortuna, non lo è. Al 31 dicembre 2018, sono 5 milioni 255503 gli iscritti in anagrafe non nati nel Bel Paese. Rispetto al 2017, quindi, sono aumentati di 111 mila (+2.2%) arrivando a costituire l’8.7% del totale della popolazione residente, la cui ripartizione geografica resta piuttosto stabile. Ecco che, allora, le aree più popolose della nazione si confermano il Nord-Ovest (26.7% della cittadinanza complessiva) e il Sud (23.1%), seguite dal Nord-Est (19.3%), dal Centro (19.9%) e dalle Isole (11%).

Un Paese che fa sempre meno figli, è ovvio, non può che essere un Paese che invecchia, di conseguenza una terra che muore. Un trend che dalla Sicilia si sta propagando nell’intero Stivale. Il ricambio generazionale, allora, laddove i morti sono più dei neonati (l’ISTAT calcola che la differenza tra nuovi nati e deceduti è stata pari a -193 mila), diventa irrealistico e gravemente agognato con conseguenze per nulla sottostimabili, sia nell’analisi dell’oggi, per lo più in termini economici – soprattutto in relazione ai costi che l’avanzare dell’età implica per le casse di uno Stato che non ha manovalanza nuova –, sia in prospettiva futura. L’Italia che non nasce, infatti, è un’Italia che non cresce, un’Italia, forse, senza domani. Così come senza domani sembrano i sogni di quei tanti giovani costretti a partire o a rinunciare a dare nuova vita per non rischiare di vederla appassire. Un po’ come la loro.

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