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Obiezione di coscienza: il caso Molise riapre il dibattito

Mariaconsiglia Flavia Fedele di Mariaconsiglia Flavia Fedele
30 Luglio 2021
in Il Fatto
Tempo di lettura: 6 minuti
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Michele Mariano ha 69 anni e da quaranta veste i panni del medico. Potrebbe essere in pensione già da qualche mese, invece ogni mattina gli tocca ancora coprire il turno al Cardarelli di Campobasso, così fino al prossimo 31 dicembre, data in cui scadrà l’ennesima deroga al suo pensionamento. Michele è l’unico ginecologo non obiettore del Molise. Dopo di lui, il nulla aspetta le donne che avranno bisogno di assistenza.

Da qualche giorno, da quando la sua storia ha fatto rumore su quotidiani e social indignati, l’Azienda Sanitaria locale ha assegnato al suo dipartimento la dottoressa Giovanna Gerardi che ora affiancherà Mariano per garantire l’applicazione della 194. Ma quando Michele non ci sarà più, le cose potrebbero compromettersi ancora. L’avviso pubblicato lo scorso aprile per l’assunzione di medici non obiettori, infatti, è andato deserto e deserta rischia di restare una terra che non riconosce diritti.

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Il Molise è la regione con il più alto tasso di medici obiettori di coscienza. In termini numerici, sfiora il 92.3% tra i ginecologi, il 75% tra gli anestesisti e il 90.9% tra il personale non medico. Ciò significa che, per motivi religiosi, etici o di altra natura, gli operatori sanitari locali scelgono di non eseguire l’interruzione volontaria di gravidanza. Di conseguenza, l’intero territorio vanta una sola struttura in cui abortire – e, fino a pochi giorni fa, un solo medico disposto a praticare l’aborto –, con oltre il 20% delle donne che necessitano di supporto costretto a spostarsi altrove o, quando non è possibile, a rinunciare.

La legge, però, dice altro: le Regioni devono assicurare che l’organizzazione dei servizi e le figure professionali garantiscano la possibilità di accedere all’interruzione volontaria di gravidanza a sostegno del libero esercizio dei diritti sessuali e riproduttivi delle donne, alle quali va garantito l’accesso ai servizi IVG minimizzando l’impatto dell’obiezione di coscienza nell’esercizio di questo diritto. Perché, dunque, nei fatti non è così?

Secondo l’ultimo rapporto del Ministero della Salute sull’applicazione della Legge 194, nel 2018 ci sono state 76328 interruzioni di gravidanza. I dati hanno confermato il continuo andamento in diminuzione del fenomeno e le riduzioni percentuali più alte si sono registrate proprio in Molise. Hanno confermato, però, anche un’altra variazione. Un po’ ovunque, in tutto lo Stivale, sono aumentati gli obiettori: il 69% dei ginecologi, il 46.3% degli anestesisti e il 42.2% del personale non medico, valori in leggero aumento rispetto a quelli riportati per il 2017 e che presentano ampie differenze regionali per tutte e tre le categorie.

Il Ministero spiega la riduzione delle pratiche di IGV con l’aumento dell’uso della contraccezione di emergenza, vale a dire la pillola del giorno dopo e quella dei cinque giorni dopo per le quali è stato abolito l’obbligo di prescrizione medica per le maggiorenni. Ma è davvero questo – o soltanto questo – il motivo per il quale le donne, nel nostro Paese, ricorrono sempre meno all’aborto? O, a tal proposito, mancano la giusta assistenza, una corretta informazione, luoghi e personali deputati ad accogliere dubbi e incertezze?

Garantita dalla Legge 194 del 1978, l’interruzione volontaria di gravidanza, in Italia, è ancora un tabù e lo è, soprattutto, per i medici che rifiutano l’erogazione del servizio, in particolare nelle aree più a sud del Paese (Calabria e Sicilia), con il picco molisano che sposta l’asse appena più a nord. L’aborto, dunque, resta per molte ancora un privilegio. Per tutte le altre, l’ennesima negazione di un diritto legalmente riconosciuto: «Chi fa aborti non fa carriera: trovatemi un primario che ne faccia. In Italia c’è la Chiesa e, finché ci sarà il Vaticano che detta legge, questo problema ci sarà sempre», commenta il dottor Mariano. Se non è dittatura sanitaria questa, viene da chiedersi cosa lo sia, gli fa eco Michela Murgia ed è difficile non concordare.

Nell’ultimo anno, la sanità e la gestione pubblica della salute sono stati, per ovvi motivi, al centro del dibattito. Tanto si è discusso – e ancora si discute, soprattutto all’indomani dell’introduzione del green pass e dell’ipotesi obbligo vaccinale – di libertà e diritti. Per la prima volta si è riscoperta, poi, l’importanza del servizio sanitario nazionale che ha consentito di rispondere all’emergenza senza lasciare indietro nessuno, nonostante tagli e svilimenti piovuti da più parti in troppi decenni. Perché, al contrario, non si riesce o non si vuole mai discutere della questione femminile e, soprattutto, della gestione del corpo delle donne che non spetta mai loro? Il tema, si sa, è vecchio come il mondo e, purtroppo, non c’è colore politico che tenga.

Non solo in Molise e non solo oggi, l’applicazione della 194, in Italia, è sempre stata sotto attacco di politiche conservatrici e patriarcali che ampio spazio hanno dato alla crescita dei movimenti pro vita e a decreti oscurantisti quali quelli targati Simone Pillon. L’aborto è l’aberrazione massima ma, in realtà, è l’intera legge a essere disattesa: l’articolo 9, lo stesso che specifica che gli enti ospedalieri sono tenuti in ogni caso a garantire il servizio dell’interruzione di gravidanza, sia quando sussista un pericolo per la salute della madre sia quando la procedura rientri nei novanta giorni previsti dalla legge, conferma che l’obiezione di coscienza vale per il singolo ma non per l’intera struttura – come succede in Molise. Prevede, inoltre, la sensibilizzazione dei consultori, così come ribadisce anche il Ministero nel suo rapporto. Viene da chiedersi, allora, su cosa vengano dirottati i fondi che a essi andrebbero destinati se si pensa che tali strutture sono sempre meno ed eternamente in sotto organico.

I consultori sono, o dovrebbero essere, i servizi territoriali dedicati alla prevenzione e quindi anche alla promozione della contraccezione e dell’educazione sessuale. Eppure, sono depotenziati della teoria, degli approcci e delle politiche che li hanno ideati e resi punti di riferimento. Così, se il Ministero plaude le proprie scelte, l’ISTAT racconta una realtà diversa: nonostante un maggior ricorso a metodi moderni (soprattutto pillola e preservativo), non si può ancora affermare che in Italia sia stata compiuta in modo definitivo la rivoluzione contraccettiva, intesa come transizione verso una diffusione di metodi moderni ed efficaci. Il coito interrotto, ad esempio, è il terzo metodo più usato per evitare una gravidanza (20% dei casi). Tra le ragioni, c’è l’alto costo dei contraccettivi, ma non solo.

Se dal 2016 l’AIFA ha inserito la pillola ormonale in fascia C, rendendola quindi completamente a carico delle donne anche nei casi di utilizzo terapeutico, profilattici, spirale e diaframma restano ancora inaccessibili a tanti. Contrariamente alle norme, infatti, nella maggior parte dei consultori italiani la contraccezione è a spese dell’utente. Poche, invece, sono le strutture che possono garantire un’offerta libera e questo nonostante gli strumenti vigenti che tutelano e assicurano l’accesso universale ai servizi di assistenza sanitaria sessuale e riproduttiva, come la Legge 405 del 1975 che – in teoria – favorisce la contraccezione gratuita o la legge sulla gravidanza del 1978. A eccellere, in tal senso, sono appena l’Emilia-Romagna, il Piemonte, la Toscana e la Puglia.

C’è, poi, anche una grossa difficoltà – per i più giovani, in particolare – a informarsi sul tema: alcuni studi dimostrano che l’89% dei ragazzi e l’84% delle ragazze cerca su internet informazioni riguardanti la salute sessuale e riproduttiva. Il 68% dei ragazzi e il 76% delle ragazze non si sono mai rivolti a un consultorio. Il 94% di essi, però, ritiene che debba essere la scuola a informarli sul tema. Ma nel Paese che ha paura del gender, una simile ipotesi non viene nemmeno formulata. Così, la contraccezione resta ancora un divieto sacrale.

A confermarlo è il Contraception Atlas 2019, l’atlante europeo che sintetizza e compara l’accesso ai metodi contraccettivi nel Vecchio Continente che relega lo Stivale al 26esimo posto su un totale di 45 Paesi presi in esame. Una posizione decisamente bassa che spinge il tricolore ben lontano dal Regno Unito, dalla Francia o dalla Germania e molto più vicino a Stati come la Turchia, l’Ucraina e la Russia che, di certo, non vantano società a tutela dei diritti e, su tutti, dei diritti delle donne.

Così, nel 2021, a essere in discussione, è ancora il principio di autodeterminazione di quello che i vocabolari definiscono sesso debole. Debole perché sprovvisto di strumenti e tutele – di scegliere per sé, per i propri corpi, della propria vita. Eternamente vittime, noi donne, di quella cultura giudicante pronta a puntare il dito sulle nostre scelte. In Molise, in Italia, nel Paese dove Michele Mariano non può andare in pensione perché è il solo ad avere una coscienza, senza obiezione.

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