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Mediterraneo Blues: la musica è bussola critica per decostruire l’idea d’Europa

Marina Finaldi di Marina Finaldi
1 Febbraio 2021
in Billy
Tempo di lettura: 4 minuti
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In libreria approda Mediterraneo Blues di Iain Chambers, il secondo coraggioso titolo della neonata Tamu Edizioni. Un viaggio per mare e per musica attraverso le contaminazioni culturali dal e del Sud che diventa strumento per decostruire criticamente l’idea di Mediterraneo e di Europa, di nord e sud come poli opposti e inconciliabili. Superata la barriera di uno stile accademico e, dunque, un po’ rigido, il saggio di Chambers apre spiragli per una prospettiva diversa: per mettere in dubbio il concetto di Occidente per scorgere le fragilità della sua egemonia, è necessario guardarlo dal mare.

In genere tendiamo a fare il contrario. Il Mediterraneo visto oggi dall’Europa è la distesa di acque blu e cristalline che bagnano le costiere di acclamate località turistiche, è un liquido pilastro di scambi commerciali, depositario del passato del Continente, della sua cultura cullata dal rollio delle onde. Per dirla con Chambers: visto dalla sua sponda settentrionale, in particolare dall’Italia, esso appare come uno spazio generalmente sconfessato, associato alle vacanze e al cibo, altrimenti luogo di un’eredità problematica e ambivalente, di un colonialismo dimenticato e contestato, oltre che di una formazione interculturale esuberante e non riconosciuta, che storicamente precede ed eccede l’inquadramento nazionale e occidentale conferito alle sue storie. Da sud, al di dentro del circuito di paura che regge gran parte della retorica del Primo Mondo, il Mediterraneo diviene sempre più un muro, una frontiera e una barriera. Il transito legale sulle sue acque è ristretto al traffico militare, mercantile, turistico […]. Il traffico umano, invece, viene considerato fuorilegge.

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Il Mediterraneo è oggi abisso: divenuto cimitero sommerso, denuncia Chambers, il mare nostrum rischia di farsi mare monstrum che occulta tra le alghe e i coralli decine di migliaia di corpi umani. Corpi d’ogni provenienza, fattezza, età. Corpi neri che si contorcono, che ansimano nella schiuma, abbandonati sulla spiaggia tra i bagnanti nei sacchi per cadaveri argentati, rimandano l’eco dell’Atlantico nero, delle memorie della schiavitù e dell’oppressione razziale nel Mediterraneo di oggi. Corpi appartenenti a persone in fuga per le quali la fuga diventa definizione: migranti. Quel participio presente tradisce un’idea di migrazione che non ha epilogo, che non termina con il terminare del viaggio; quel participio presente incasella gli individui e i loro destini in un’indefinita massa in movimento. E pone la prospettiva d’osservazione sulla terraferma e in funzione della terraferma.

L’idea del migrante che l’Europa s’è fabbricata è talmente legata al Mediterraneo da formare un unicum con il concetto stesso di mare. Vengono descritti come maree od ondate. Si muovono per flussi e inondano, sommergono la terraferma. Il corpo migrante è un corpo in cui ravvisiamo la solidità e la somiglianza con i nostri solo quando, cadavere, viene riportato a riva dai flutti. La narrazione continentale dell’altro, del diverso, finisce così per raggiungere una sorta di dimensione mitica ibridata con il mare e carica, come il mare, della stessa minaccia, della stessa imperscrutabilità. Così, nella Fortezza Europa, si respinge l’umanità anche a livello ideale.

Come già notava Edward Said, la pratica di ridurre l’altro a una maschera di esotismo è ben radicata nel passato coloniale europeo ed è strumentale alla costruzione di un’immagine precisa di Occidente. In quello che è probabilmente il suo saggio più noto (Orientalismo), Said scrive: L’Oriente sembrerebbe essere, più che una estensione sconfinata oltre il familiare mondo europeo, un insieme delimitato, un palcoscenico teatrale annesso all’Europa […]. E, ancora: […] I tropi, le figure rappresentative dell’orientalismo appaiono nei confronti dell’Oriente vero e proprio come dei costumi stilizzati per i personaggi di una recita; sono, ad esempio, come la croce di Everyman, o il costume variopinto di Arlecchino nella commedia dell’arte. In altre parole, non bisogna cercare una corrispondenza tra il linguaggio usato per rappresentare l’Oriente e l’Oriente in sé e per sé. Non perché questo linguaggio sia impreciso, ma perché non tenta nemmeno d’essere accurato. Questa rappresentazione è sempre uno spettacolo a beneficio occidentale poiché, affondando le radici nel mito, aiuta l’Occidente a definire e a definirsi in un gioco di contrasti binari: civile contro incivile, razionale contro istintivo, fedele contro infedele, stabile contro instabile e così via.

Nel riprendere Said, Chambers ravvisa il desiderio malinconico europeo di reiterare la propria egemonia nella rappresentazione narrativa del Mediterraneo. Tale desiderio occidentale evita il mare, poiché il mare è storia liquida ed è per mare che popoli e culture si sono formati, riconosciuti, combattuti, contrastati nei secoli. In letteratura, il mare è luogo delle gesta degli eroi canonicamente occidentali come Ulisse, ma è anche lo spazio che ha ospitato Polifemo e Circe, Medea e Calipso, Calibano e Sicorace. Tutti, questi ultimi, manifestazioni di minaccia per l’Occidente, per il razionalismo onnipotente della terraferma. Il mare, con la sua fluidità e il suo movimento, diventa agli occhi dell’Occidente un luogo senza legge, in cui la narrazione europea s’interrompe. Riconoscerne lo spazio, l’esistenza plurale, la differenza significherebbe abbandonare a livello ideale l’illusione dell’ordine singolo, dell’immobile e irremovibile modello europeo.

Per conservare quella che Chambers chiama egemonia concettuale dell’Occidente, il suo apparato culturale produce ancora oggi una doppia colonizzazione nei confronti del Sud: conserva come punto di riferimento storico e politico unico quello occidentale e, pertanto, dichiara come fallimentare e arretrata ogni manifestazione, ogni dichiarazione d’esistenza, ogni alternativa meridionale. Nel mettere in discussione la subalternità del Sud rispetto al Nord (la geografia egemone), afferma Chambers, bisogna cercare una cartografia alternativa. Quest’ultima può realizzarsi attraverso la musica: diversamente dalla rappresentazione narrativa, che traduce il mondo in oggetti, la musica narra tramite i corpi ed è dunque atto sensoriale, performance. La musica, come il mare, è forma del divenire. I suoni si susseguono, si contaminano, sfuggono al bisogno di definizione di un’identità certa, all’illusione della radice.

La radice sonora suggerisce un senso fluido del dimorare. Il blues, la nota blu della musica mediterranea, scompone e destabilizza l’Occidente perché introduce nel pensiero il lutto critico nell’ascoltare le voci seppellite e inascoltate che sopravvivono nel suono. Attraverso la ripetizione musicale, il ritornello, il suono contesta il discorso egemone perché in esso ritornano e persistono passati e storie che vengono contemporaneamente deterritorializzate e riterritorializzate. Dal passato presente nei suoni emerge e ricorre un futuro che è sempre possibilità.

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