Non sarà come a marzo. No, non ci saranno arcobaleni disegnati sulle finestre, bandiere e cartelli di incoraggiamento. Non ci saranno i cori, le mani tese fra i balconi, la partecipazione commossa. Stavolta non c’è una causa comune, non c’è l’arrivo dei tartari da respingere, il nemico, il “male” non fa la stessa paura a ciascuno di noi. Una frammentazione degli stati d’animo: il terrore è solo una delle possibili risposte al male che arriva. Ma c’è anche la rabbia, tanta rabbia, così generalizzata da apparire generica e non sintetizzabile in uno slogan, in un programma di lotte o di semplici contestazioni collettive. Non c’è più quella collettività impaurita, unita e solidale della prima ondata. Il senso comune dilagante è che si tratta di una tragedia che riguarda i vecchi.
Sui social tutti mostrano di conoscere molto bene le condizioni – età, patologie preesistenti, tempi di ricovero – dei deceduti e ne traggono le conseguenze più varie: riduzioniste (si tratta di un’influenza solo un po’ più grave), negazioniste (il COVID non esiste) o complottiste. Ma è dentro i comportamenti quotidiani che i tamtam dei media e una comunicazione istituzionale confusa, contraddittoria, raffazzonata hanno scavato il solco che sta facendo la differenza sostanziale e pratica tra la prima e la seconda ondata.
Se è solo un’influenza e come ogni anno anche adesso a cedere solo gli organismi fragili dei vecchi perché mai i giovani ne devono pagare lo scotto? Questo è l’interrogativo che si sente nei capannelli o che vedi negli occhi del ragazzo che non porta la mascherina e incrocia i tuoi occhi da vecchio timoroso. Eppure, l’età media dei decessi non è cambiata da quella della prima ondata. E, come nella prima ondata, nessuno, a prescindere dall’età, può davvero augurarsi di sperimentare un ricovero in terapia intensiva seppur con esito “fausto”. Il punto è che è più facile credere in ciò che fa comodo, soprattutto se ad agire da rinforzo a queste convinzioni fioriscono dichiarazioni incoraggianti di eminenti virologi che per tutta l’estate hanno sparso un certo ottimismo sulla definitiva scomparsa del virus. Fatto sta che, anche alla seconda ondata, Governo e Regioni sono arrivati assolutamente impreparati e i tutti nodi di una sanità vulnerata progressivamente da tutti gli esecutivi succedutisi negli ultimi quindici anni stanno venendo al pettine.
Incapaci di affrontare il nemico con la necessaria centralizzazione di forze e di intenti, il Governo e le Regioni giocano a rimpattino su chi debba decidere la strategia adeguata per non giungere al picco di decessi e al crash del sistema sanitario ancor prima di Natale. Il comandamento sul quale tutti sembrano trovare un indirizzo unitario è che l’economia non può subire un arresto simile a quello sperimentato fra marzo e maggio. Di conseguenza: fabbriche aperte, uffici che funzionano (casomai a distanza) e il minor danno possibile al commercio e alla catena enogastronomica, scaricando sulla scuola, sulla cultura, sullo sport amatoriale (tutti si guardano bene dal toccare quello professionistico) e sul tempo libero l’onere di contrastare la pandemia. Il quadro così composto autorizza la contrapposizione, che è destinata a diventare sempre più acuta e strumentale, tra giovani e vecchi.
Forte di tutto ciò, Giovanni Toti, governatore della regione con l’età media più alta d’Italia, si prende la licenza della sua esternazione sui vecchi non indispensabili allo sforzo produttivo cui saremmo chiamati. A ridosso del tweet viene diffuso lo studio dell’ISPI, dal titolo eloquente: Datavirus: il lockdown per gli anziani può servire?. Il suo sagace estensore, con grafici alla mano, spiega che se si riuscisse a non far morire gli over 80 o, ancora meglio, gli over 70 (il top sarebbe non far morire quelli over 60) proteggendoli, anche con misure di quarantena mirate per età e territori, la pressione sul sistema sanitario diminuirebbe e soprattutto potrebbero essere alleggerite le misure di contenimento a carico di altri strati sociali. Come dire: metti il vecchio in quarantena e, voilà, il gioco è fatto. Solo alla fine dello studio, all’autore sembrano sorgere titubanze sulla praticabilità della sua ricetta: davvero un lockdown limitato alle fasce più anziane ne eviterebbe l’infezione? Ci sono molti dubbi al riguardo. […] anche perché con l’aumentare della circolazione del virus nella popolazione è estremamente difficile isolare fasce di età a rischio a meno di estirparle dal loro habitat naturale e dall’insieme dei loro abituali contatti parentali collocandoli in luoghi “sicuri”. (cfr. ibidem)
Sia Toti che il ricercatore dell’ISPI sembrano ignorare che l’Italia è un paese di vecchi. Siamo lo Stato dell’Unione Europea con la proporzione maggiore di over 64enni: 22.6 contro il 19.7 di media e, per quanto riguarda la percentuale di 50-64enni, ci attestiamo al 37.1% contro una media del 34.5 dell’Unione. Insomma, gli italiani ultrasessantenni sono quasi un terzo del totale degli abitanti, 2.3 milioni di essi lavorano e rappresentano il 9% della forza lavoro regolarmente censita. Alcuni di loro dovranno farlo fino a 67 anni. Ma anche in questa fetta di popolazione abbonda il lavoro a nero, precario e non censito, spalmato nei servizi, così come nelle piccole aziende meccaniche, nell’agricoltura, nell’edilizia, nel commercio e nelle infrastrutture logistiche. Dentro questa immensa realtà italica di vegliardi attivissimi, i nonni sono il tessuto connettivo di una società che impegna nel mondo del lavoro entrambi i coniugi, per cui siamo il paese che è ai primi posti di una particolare classifica: più over 75enni hanno contatti quotidiani con familiari e parenti. Sono il 32.9%. Più della metà vive a meno di un chilometro da figli e nipoti.
Ai vecchi di qualsiasi età e condizione sociale viene chiesto di sopperire a un welfare monco – o non intercettabile in molte realtà, grandi metropoli e piccoli paesi – e di garantire con un’entrata pensionistica fissa, per quanto piccola, la sopravvivenza quotidiana, degli ultimi e degli invisibili, vittime senza nome di ogni calamità. L’Italia è dunque un paese di vecchi produttivi e socialmente utili. Questo significa che non ci sono scorciatoie praticabili e che non si può agire tentando di non scontentare questo o quello, finendo con lo scontentare tutti. Tutti, salvo i poteri forti del nostro paese, che continuano a dettare l’agenda delle misure da prendere e della direzione delle risorse da distribuire. Questo è il terreno dello scontro vero.
Non ci si è preparati alla seconda ondata non solo e non tanto per incompetenza o per superficialità, ma perché gli investimenti devono avere un saggio di rendimento il più elevato possibile ed è quindi più profittevole destinare risorse all’industria delle armi, agli sgravi fiscali per le industrie, ai contributi a fondo perduto per i diversi settori produttivi, al privato piuttosto che al welfare. È una strada già battuta, già rilevatasi catastrofica e non solo in occasione di questa pandemia.
Il virus ha svelato tutta la fragilità delle compatibilità economiche sulle quali abbiamo pensato di poter vivere e prosperare. Alla fine di tutto – semmai ci sarà – il mondo non sarà più quello di prima. Ma la visione del futuro la dobbiamo costruire già da oggi, facendo nostre le parole di Nassim Taleb, l’autore del Cigno nero e il teorico dell’Antifragilità: Il vento può spegnere una candela e ravvivare un fuoco. Lo stesso avviene con la casualità, l’incertezza e il caos: bisogna imparare ad approfittarne, anziché tenersene alla larga. Dobbiamo imparare a essere il fuoco e a sperare che si alzi il vento.
Contributo a cura di Pierluigi Del Pinto