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Le 5 Stelle che non ci sono più

Farouk Perrone di Farouk Perrone
17 Gennaio 2020
in Attualità
Tempo di lettura: 4 minuti
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Il MoVimento 5 Stelle è un movimento di liberi cittadini per un’Italia a 5 Stelle: Acqua, Ambiente, Trasporti, Connettività, Sviluppo, si legge sul sito del movimento, a oggi, più famoso d’Italia. Una frase che riassume i principi di base su cui nel 2009 questo si era costituito. Ma cosa resta, adesso, di quei valori? I pentasellati hanno ancora la visione dura e pura che avevano un tempo? È sotto gli occhi di tutti il netto cambiamento di quel moto di piazza nato per incanalare la rabbia di tantissima gente stanca delle ruberie dei politici e degli scandali che li coinvolgevano, decisa ormai a mandarli letteralmente affanculo.

Con il passaggio dalle strade al Parlamento nel 2013, però, i vaffa si sono trasformati in iniziative parlamentari d’opposizione, seguite dal referendum costituzionale del 2016 e una massiccia mobilitazione dei grillini guidata da Di Battista. Infine, è arrivata la svolta governista del 2018, dovuta al 32% raccolto alle elezioni, improntata dall’alleanza prima con la Lega e poi con il PD.

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In particolare, tutto quello che è successo negli ultimi tre anni è avvenuto nel segno di una persona: il capo politico Luigi Di Maio. In questi giorni si legge sui giornali di un implosione del partito – chiamiamo le cose con il loro nome – che potrebbe portare persino a una scissione: sarebbe sorprendente se stessimo parlando di quel gruppo di giovani parlamentari che si presentava tra i cittadini, che cercava di raccoglierne le istanze e parlava di temi che la vecchia politica aveva in larga parte abbandonato, invece non c’è nulla di cui meravigliarsi perché il MoVimento non è più quello.

Parliamoci chiaro: i 5 Stelle stanno pagando la rottura con il popolo, la loro incapacità di farsi capire e di dialogare con la gente, la tendenza ormai acquisita ad arroccarsi nel Palazzo e a non spiegare le loro scelte (al massimo si affacciano dal balcone per affermare di aver abolito la povertà, ma quello è un altro discorso). Ormai, si sono trasformati in ciò che un tempo detestavano e, se prima li premiava l’efficienza comunicativa – giusta o sbagliata che fosse, era comunque in grado di raggiungere molte persone –, oggi sono chiusi nelle stanze dei bottoni dove hanno perso contatto con la realtà, affidandosi del tutto alla decisione del capo Di Maio che, quando non sa cosa fare, si ricorda dell’esistenza della piattaforma Rousseau e la interpella.

Già, Di Maio: è innegabile che la maggior parte delle responsabilità di questo andazzo sia sua. Non è riuscito a tenere i piedi per terra sin dalle settimane successive alla vittoria elettorale, quando chiese in fretta e furia l’impeachment per il Capo dello Stato che aveva rifiutato di incaricare il professore Savona come Ministro dell’Economia, pentendosene due giorni dopo. Ma, soprattutto, paga la scriteriata esperienza di governo con Salvini, non tanto per la scelta in sé di allearsi con il partito verde – forse l’unica soluzione rimasta dopo il no del PD targato Renzi – quanto per essersi reso complice delle azioni compiute dall’alleato. E, sia chiaro, per complicità non bisogna intendere solo il sostegno alle proposte di legge, ma anche il silenzio di fronte alle affermazioni gravissime dell’allora Ministro dell’Interno e agli atti che hanno immobilizzato per mesi il Paese.

Come ha potuto tacere quando Salvini ha affermato che per i migranti la pacchia è finita? Perché è sempre stato ambiguo quando si è trattato di far sbarcare persone che per giorni o settimane sono state costrette sui barconi a causa dei capricci elettorali del Segretario leghista? Perché non ha votato e fatto votare ai suoi l’autorizzazione a procedere nei confronti dell’allora titolare del Viminale sul caso Diciotti, quando il suo movimento è sempre stato d’accordo nel far accertare le responsabilità penali alla magistratura? Non è un caso che oggi si stia scoprendo solo, forse in procinto di dimettersi, senza l’appoggio di parte della sua schiera parlamentare. Un leader, infatti, non può pensare di ricoprire quattro ruoli prima – Ministro dello Sviluppo Economico, Ministro del Lavoro, Vicepremier e capo politico – e due poi, di cui uno è quello di Ministro degli Esteri, il che implica l’essere quasi sempre fuori dall’Italia. Incarichi tutti di primo piano ricoperti alla prima esperienza di governo, a soli 32 anni, mentre c’è un movimento da gestire che sui territori ormai è quasi assente, non avendo una struttura adeguata che un segretario, un capo, un presidente – chiamiamolo come ci pare – dovrebbe saper garantire.

Ma ciò che Di Maio sta scontando di più è la mancanza di sostegno della sua gente: fa parte della politica perdere parlamentari ed è ragionevole pensare che alcuni lo stiano facendo per garantirsi una poltrona alla prossima tornata elettorale ma, quando in un anno si cala dal 32% all’11%, è ragionevole porsi delle domande e fare delle scelte conseguenti. Perché, quando nel giro di un’estate si decide di passare dal governare con la destra al governare con la sinistra, si è tenuti a dare solide spiegazioni al proprio elettorato decidendo una volta per tutte da che parte si sta. Perché, se è vero che destra e sinistra sono un bivio e che a un certo punto bisogna scegliere, i 5 Stelle hanno optato per la soluzione peggiore: hanno deciso di non scegliere. 

Prec.

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