A mente fredda, dopo lo stupore (mica tanto!) dei risultati elettorali delle Elezioni Europee, possiamo con certezza affermare che se c’è qualcuno che aveva capito tutto sin dall’inizio, quello è sicuramente Giancarlo Giorgetti, il quale, pochi giorni dopo il giuramento del governo Conte, consigliò ai suoi ministri di tenere sul comodino la foto di Renzi, a dimostrazione di come il consenso e la fiducia degli elettori siano precari e instabili se non si rispettano le promesse fatte. Ad appena un anno dall’inizio del mandato, però, è evidente che i 5 stelle non abbiano seguito il suggerimento del loro alleato, visto che sono riusciti nell’ardua impresa di dimezzare il proprio sostegno in meno della metà del tempo impiegato dall’ex premier fiorentino. Non solo per ciò che i pentastellati hanno fatto, ma anche e soprattutto per quello che non hanno fatto. Partiamo dapprincipio.
Rimarrà nella narrazione politica italiana la notte tra il 27 e il 28 maggio 2018, quando Mattarella decise di non incaricare il professore Conte perché quest’ultimo aveva inserito nella lista dei membri dell’esecutivo l’euroscettico Paolo Savona in qualità di Ministro dell’Economia. Il rifiuto suscitò l’ira di Di Maio che poche ore dopo si presentò in piazza a Fiumicino, in collegamento con Che tempo che fa, per affermare pubblicamente che il M5S era intenzionato a chiedere l’impeachment per il Presidente della Repubblica.
Tralasciando che, come sottolineavamo qualche giorno fa su questo giornale, ora Mattarella è diventato per il Vicepremier pentastellato l’angelo custode del governo, è evidente come la richiesta di stato d’accusa non fosse nient’altro che un sintomo impulsivo-compulsivo di un movimento incapace di razionalizzare la situazione e, per questo, volto a intimorire il Presidente della Repubblica che, invece, stava gestendo una fase piuttosto complicata in maniera straordinariamente pacata e riflessiva. Non a caso, pochi giorni dopo incaricò Conte, con Savona che divenne titolare del Ministero degli Affari Esteri.
Il 3 giugno, invece, appena insediatosi il governo, Salvini comunicò che per i clandestini la pacchia fosse finita, una frase che suscitò l’indignazione di giornalisti, associazioni e politici. In molti risposero a tono al leader della Lega, ma non i 5 stelle.
Fu in questa occasione che cominciarono le omissioni di un partito che, dopo anni in cui aveva sollevato le barricate nelle piazze e in Parlamento, all’improvviso si ammutolì, facendo passare inosservata l’equazione immigrazione=pacchia. Fu, forse, una svista? Sembra proprio di no. A distanza di qualche giorno, infatti, l’alleato affermò ad Agorà che sarebbe stato oggetto di valutazione se Roberto Saviano corresse ancora dei seri rischi, necessitando quindi la scorta. Un tema tuttora al centro del dibattito. A tanti l’uscita sembrò una vera e propria minaccia date le dure critiche che il giornalista aveva sempre riservato al leader leghista. Anche in quel caso, quindi, si alzò un polverone che portò moltissime persone a schierarsi al fianco del reporter napoletano. I 5 stelle, però, ancora una volta, restarono inerti alla faccia della loro attenzione verso la questione legalità.
Arrivò, così, agosto e fu nuovamente il leghista a creare imbarazzo tra i banchi del governo, quando decise di non far approdare i barconi diretti sulle coste italiane, finché la Procura di Palermo non aprì un’indagine per sequestro di persona a carico del Ministro dell’Interno e dei suoi porti chiusi. E qui giunse il peccato originario dei pentastellati: prima non chiedendo le dimissioni di Salvini – in contraddizione con le posizioni assunte quando erano all’opposizione («Alfano indagato per abuso d’ufficio. Le nostre forze dell’ordine, il loro massimo vertice indagato. Si dimetta in 5 minuti», disse Di Maio nel lontano 2016 a proposito dell’allora Ministro dell’Interno indagato) –, poi, nel momento in cui andava concessa o meno l’autorizzazione a procedere, deresponsabilizzandosi, lasciando la decisione agli iscritti alla piattaforma Rousseau con un quesito che i giuristi definirebbero alquanto suggestivo.
Ma il tracollo non si è chiuso lì. I pentastellati, infatti, hanno continuato a inseguire l’alleato sui propri temi, a partire da Alessandro Di Battista che, appena tornato dal suo viaggio in Sud America, ha basato la propria recente campagna elettorale per le Europee – da non candidato – sul diritto degli africani di rimanere in Africa, che, detta così, sembra un po’ la traduzione del motto sovranista Aiutiamoli a casa loro.
Lo stesso Di Battista che, a inizio del luglio scorso, ha criticato la manifestazione delle magliette rosse perché, secondo l’ex parlamentare, bisogna indignarsi anche di fronte ai bombardamenti in Libia e alle guerre degli ultimi vent’anni, dimenticando forse che quel corteo è stato organizzato da Libera, ANCI e ANPI che nulla hanno a che vedere con le politiche estere dei decenni precedenti, desiderose solo di fermare l’emorragia di umanità. Intanto, i 5 stelle hanno tradito se stessi anche con il TAP, il gasdotto salentino di cui sempre Dibba, nell’aprile 2017, aveva garantito il blocco in caso di salita al governo, ennesima promessa disattesa che ha provocato la rabbia dei (tanti) elettori pugliesi che ci avevano creduto e che, quindi, hanno contestato duramente la Ministra per il Sud Lezzi durante una visita a Lecce, sua terra d’origine.
Come dimenticare, poi, la questione ILVA che, a detta dei 5 stelle, andava riconvertita tramite la chiusura delle fonti inquinanti ma che nei fatti è stata venduta all’industriale mondiale Mittal nel settembre 2018, quando Di Maio era già Ministro dello Sviluppo Economico e al quale il professore Marescotti in un vis-à-vis ha fatto recentemente presente l’aumento dell’inquinamento prodotto dall’industria tarantina negli ultimi mesi, in controtendenza con la riduzione delle emissioni nocive del 20% promessa dal capo politico del M5S? Con tanti saluti alla difesa dell’ambiente, tema da sempre centrale per i fondatori Grillo e Casaleggio.
Adesso sembra che il principale partito di governo, almeno sulla carta, voglia cambiare ed essere più presente sui territori. Legittimo, per carità, ma non è questo il motivo della débâcle dei 5 stelle. Il problema è un’identità confusa sui punti che, come la legalità, l’ambiente e l’energia, sono stati il loro cavallo di battaglia, ma soprattutto una mancanza assoluta di personalità su alcune delicate questioni. Se sin dall’inizio non sei in grado di prendere una posizione netta sull’immigrazione, se non riesci a dichiararti antifascista o meno, se ritieni che i diritti civili debbano essere messi da parte per occuparti solo dei diritti sociali, a quel punto è facile che arrivi il primo Salvini di turno per avvolgerti e scaraventarti via. Inevitabile, allora, il crollo di fiducia nei confronti del nuovo, un nuovo molto simile al passato e che del passato ripete anche gli stessi errori.